«Roma, studio televisivo n.7; cinquantacinque protagonisti di quegli anni ci daranno una testimonianza diretta». Così la sera del 10 novembre 1972, un venerdì, Sergio Zavoli introduceva la prima delle sei puntate di Nascita di una dittatura, una monumentale opera di ricostruzione del contesto storico e sociale che portò alla genesi e all’ascesa del fascismo. Un gioiello del servizio pubblico televisivo italiano, scritto con la collaborazione di Edek Osser e Luciano Onder, che a cinquant’anni dalla sua messa in onda e a cento dalla marcia su Roma continua a far riflettere non soltanto su quegli eventi tragici, ma anche sull’utilizzo e la rappresentazione della storia in televisione e negli audiovisivi.

Il lavoro di scavo di quell’irripetibile ciclo di puntate portò sul piccolo schermo testimonianze e biografie straordinarie: da Nenni a Bordiga, da Rachele Mussolini a Lando Ferretti, da Lelio Basso a Ferruccio Parri, figure “mitologiche” del fascismo e dell’antifascismo che contribuirono a ricostruire l’humus dentro il quale presero forma le violenze che portarono all’instaurarsi della dittatura, articolando per la prima volta un discorso complesso sul tema, in un contesto – quello dei primi anni Settanta, segnato dall’inizio della strategia della tensione – che non rinunciava a indagare il consenso che una parte della borghesia italiana riservò al progetto mussoliniano.

Ricomporre oggi i frammenti di Nascita di una dittatura significa fare tesoro dell’esperienza umana e professionale di Sergio Zavoli, del suo contributo al giornalismo e alla cultura nazionali, della sua vocazione di autentico e garbato innovatore del servizio pubblico. Nei giorni in cui ricorre il centenario della sua nascita (avvenuta a Ravenna il 21 settembre 1923), la figura di Sergio Zavoli continua a stagliarsi come esempio di un approccio rigoroso e maturo all’informazione televisiva, ma anche come profetica espressione dei limiti che, per natura, il mezzo stesso pone alla comprensione di complessi fenomeni del passato. Dalle colonne de L’Espresso, Sergio Saviane liquidò Zavoli come «uno storico da video» e come un «gerarca televisivo»; toni quasi sprezzanti, eppure rivelatori della fatica che comportò il giungere a un’approvazione piena e diffusa dei suoi metodi d’inchiesta.

Entrare nella storia

La parabola di Zavoli ha incrociato i grandi momenti di trasformazione della storia della televisione italiana. Dopo Clausura, originale inchiesta radiofonica del 1957 sul mondo delle suore di clausura, che gli valse il Premio Italia e che fece conoscere la sua voce pastosa e inconfondibile, Zavoli passò al video nei primi anni Sessanta; erano gli anni in cui la Rai raddoppiava, implementando il secondo canale e diversificando l’offerta, e in cui l’inchiesta delle origini lasciava progressivamente spazio al rotocalco, a un’informazione televisiva che andava assumendo una fisionomia propria, tratteggiando approfondimenti che risentivano della stagione dei “settimanali” della carta stampata e che richiedevano nuovi approcci al racconto e alla comprensione della realtà. Due programmi di quegli anni portavano impresso lo stile zavoliano: Tv7 (dal 1963 e in onda ancora oggi come rubrica settimanale del Tg1) e Il processo alla tappa (dal 1962 e transitato anch’esso, pur dietro molteplici make up, fino alle cronache ciclistiche dei giorni nostri). Il processo alla tappa portava, per la prima volta, l’evento sportivo dentro l’universo dell’intrattenimento, della chiacchiera quotidiana, ma anche della divulgazione, della cultura intesa come capacità di stabilire connessioni tra alto e basso, di aprire squarci inattesi, di deviare le narrazioni.

Così, tappa dopo tappa, città dopo città, borgo dopo borgo, Zavoli improvvisava studi itineranti al traguardo per commentare il Giro d’Italia, rendendo ancora più amato e popolare uno sport come il ciclismo, intervistando gli eroi in bicicletta non solo sugli aspetti della gara, ma sulle fidanzate, sulla vita privata, sulle speranze. Non di rado, intellettuali come Pier Paolo Pasolini partecipavano al programma dialogando con gli sportivi (celebre lo scambio con Vittorio Adorni), osando, improvvisando, quasi come in una “commedia dell’arte”, per usare le parole di Aldo Grasso.

Con Il processo alla tappa, Zavoli sperimentava anche un rapporto nuovo con la tecnologia, abbozzando i primi tentativi di moviola, installando telecamere sui mezzi al seguito della corsa, “giocando” con la grafica (s’intravvedevano i primi rudimentali split screen). Era una televisione che non disdegnava di esibire sé stessa, di mettere in mostra le proprie innovazioni tecniche; un approccio che proprio in Nascita di una dittatura, dieci anni più tardi, troverà un’espressione ancora più marcata. Qui il mezzo è volutamente esibito, ostentato: la sigla insiste sullo studio, sul suo allestimento, sulle telecamere, su schermi e maxischermi sui quali verranno proiettate le interviste ai protagonisti, rivendicando l’autonomia formale della televisione nel rappresentare i fatti storici.  

Il socialista di Dio

Vicino alle posizioni del Partito Socialista Italiano, seppur profondamente credente (si definirà “socialista di Dio”), nel 1980, mentre il “terremoto” provocato dall’avvento delle televisioni commerciali minava nelle fondamenta il concetto stesso di servizio pubblico, Zavoli divenne presidente della Rai, carica che manterrà fino al 1986, in un periodo segnato dall’istituzionalizzazione della “lottizzazione” e dalle spartizioni dei canali tra i partiti, compreso il Pci che, dall’anno successivo – il 1987 – parteciperà alla prassi “acquisendo” Raitre.

Nel 1989, il giornalista romagnolo tornò in prima linea con un’altra delle sue “opere” più note: La notte della Repubblica, in onda a partire dalla sera del 12 dicembre, a vent’anni esatti di distanza dalla strage di piazza Fontana, è una monumentale inchiesta (150 testimonianze, migliaia di ore di filmati) volta a ricostruire le trame degli anni di piombo e degli anni più bui della democrazia italiana. Scritto con la collaborazione di Piero Pasquale e Paolo Graldi, il programma è un documento irripetibile per raccontare quel periodo storico, ma è anche l’esito di una trasformazione del mezzo televisivo che Zavoli cavalcò e interpretò. La notte della Repubblica è il calco di un’epoca, quella della “neotelevisione” per usare l’allora in voga definizione di Umberto Eco, segnata da nuovi linguaggi e da un’ibridazione dei generi. Rispetto al passato, le puntate si estendevano lungo la serata, a una prima parte più “classica” che ricostruivano il l’evento e il suo contesto, seguivano altri due blocchi: un’intervista faccia a faccia di Zavoli con un protagonista della vicenda e un dibattito in studio che spesso tracimava nell’abbondanza di ospiti in ossequio al pluralismo delle opinioni e, soprattutto, delle posizioni politiche espresse dai partiti e dalla società.

La volontà investigatrice di Zavoli si spinse dove forse mai la televisione si sarebbe aspettata, facendo parlare anche i protagonisti più scomodi e inquietanti, come quando chiese al brigatista Franco Bonisoli, uno dei membri del commando di via Fani che rapì Aldo Moro, di ricostruire il modo con cui spararono e sterminarono la scorta del presidente della Dc incalzandolo su cosa provasse nel rivedere quella scena riproposta in televisione. Ne uscì una testimonianza unica, persino fastidiosa e disturbante, eppure tremendamente unica e potente.

Qualità per il popolare

A cent’anni dalla sua nascita, il grande lascito di Zavoli è senza dubbio quello di aver fatto un tv di qualità che fosse però estremamente popolare, utilizzando un linguaggio semplice ma non semplificato, riuscendo a farsi capire da tutti senza derogare alla complessità e alla profondità dell’analisi.

Ma ci ha anche voluto mettere in guardia sui rischi di un approfondimento storico che passa dal mezzo televisivo, ossessionato da «una possibilità d’intervento nella storia che fosse insieme rigorosa, spettacolare quel tanto che comporta una drammatizzazione televisiva, ma che corrispondesse anche a una sorta di ideologia del fare storia» come ebbe a dire lui stesso. C’era in Zavoli la consapevolezza di un’inevitabile divaricazione tra storia e spettacolarizzazione televisiva, uno scarto che ha cercato in tutti i modi di ricomporre, ma che inevitabilmente aveva ben chiara la parzialità strutturale dello sguardo televisivo.

Nel riassumere la genesi del fascismo, proprio alla fine della sesta e ultima puntata di Nascita di una dittatura, il giornalista romagnolo concludeva sentenziando che «quella storia ha in sé un errore che è la sua logica stessa» riferendosi naturalmente alla logica irricevibile della dittatura, della violenza e della sopraffazione. Eppure, chissà che non ci stesse anche ammonendo sui pericoli della rappresentazione televisiva della storia che, nella sua stessa logica, contiene in sé il germe dell’errore, dell’imperfezione, dell’impossibilità di contenere tutte le sfumature e le complessità che ambisce a raccontare.

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