Quell’irresistibile tentazione di prendere scorciatoie che subisce il pensiero e che porta a semplificare e crogiolarsi in certezze distorte, non risparmia nemmeno lo sport. La particolarità consiste nel fatto che lo sport è uno dei rari ambiti delle attività umane che gode di un pregiudizio positivo: ciò significa che, a priori, lo si considera buono e utile. Non a caso le famiglie tendono a delegare parte della loro responsabilità educativa alle associazioni sportive. Lo sport è scuola di vita oppure lo sport è palestra di valori, sono locuzioni ricorrenti che sottolineano il riferirsi allo sport come a un soggetto autonomo, dotato di vita propria. Lo sport però, di per sé, non è né positivo né negativo bensì uno strumento che agisce in risposta ai comportamenti delle persone che lo usano. Perciò la consapevolezza del ruolo prosociale degli adulti, attivi nell’organizzazione e gestione della pratica sportiva, è fondamentale per la qualità dell’esperienza agonistica vissuta dagli atleti. Il peso di questo presupposto è strettamente legato ad alcune condizioni che nello sport sono al tempo stesso punti di forza e debolezza.

Il carisma

La prima di queste condizioni poggia sul grande carisma di cui gode chi aiuta un talento a fiorire: cosa c’è di più importante e più bello di avere una persona adulta di riferimento che crede in te, giovane promessa, nel tuo potenziale e ti vuole aiutare a svilupparlo? Se Simone Biles mettesse al collo tutte le medaglie olimpiche e mondiali vinte ad oggi, sentirebbe una stretta insopportabile.

Un fastidio insostenibile come quel dolore che dal cuore saliva alla testa e le impediva di volteggiare leggera, durante gli ultimi Giochi olimpici di Tokyo. Un disagio psicologico dissero i medici. In preda ai demoni si era definita lei. La stampa internazionale preferì trattarlo come un momento di burnout sportivo ed evitare di tornare su “quel demone” in particolare che l’aveva bruciata dentro molto prima.

Fu lei infatti, con la sua coraggiosa testimonianza, a scoprire l’atroce serie di violenze sessuali commesse dal medico della squadra nazionale, Larry Nassar. Ci voleva la forza e il coraggio della ginnasta più forte della storia per porre fine a una mostruosità che ha colpito oltre 150 atlete nell’arco di circa 15 anni: all’ex dottore non basta questa vita per scontare i 140 anni di reclusione a cui la sentenza lo ha condannato. Come è potuto succedere, si è chiesta l’opinione pubblica.

Denunciare non è mai facile nemmeno per vittime mature e al di fuori delle particolarità del sistema sport: particolarmente difficile era riuscire a farlo per giovani atlete che avevano di fronte un professionista, docente universitario, pluridecorato, stimato, protetto. Una persona inizialmente benvoluta dalle sue stesse vittime avviluppate in un rapporto avvelenato in cui lui prima si prendeva cura dei loro corpi e poi ne abusava: facendo credere ad ognuna di essere la sola e da sola.

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La distanza anagrafica

La seconda condizione che pesa sulla qualità dell’esperienza sportiva è la grande distanza che tendenzialmente separa in termini di età e maturità chi allena da chi è allenato. La storia delle “farfalle” che ha scosso la ginnastica ritmica italiana, può aiutarci a capire meglio. Due ex atlete della nazionale accusano la direttrice tecnica e la sua assistente di abusi, insulti, legati prevalentemente al controllo del peso; comportamenti inappropriati che hanno lasciato profondi segni nella loro psiche, spingendole a meditare il gesto estremo.

Dopo tanto rumore (amplificato da molte altre diverse denunce, a dimostrazione di un problema di sistema) tutto si risolve con un’assoluzione piena, perché gli atteggiamenti offensivi vengono giudicati come orientati a stimolare un maggiore impegno e non tesi ad arrecare danno. È stato un «eccesso di amore» ha detto il procuratore federale. Difficile aspettarsi qualcosa di diverso da un modello di giustizia sportiva chiuso, chiamato a giudicare sé stesso.

In tutte le discipline il peso è un dettaglio fondamentale ai fini della prestazione. Combinare la preparazione atletica con la restrizione alimentare è un aspetto delicatissimo, pieno di insidie da affrontare con un approccio professionale e multi-disciplinare, non certo con le vessazioni. Come può accadere e perché viene accettato si è chiesta l’opinione pubblica. Chi allena, costruisce gli effetti del suo lavoro sul rapporto di fiducia che instaura con l’atleta: fiducia che è tanto più cieca quanto è grande la differenza di età e maturità che li separa. Rapporto che è tanto più solido quanto è difficile l’obiettivo da raggiugere. E la relazione di fiducia e rispetto si può trasformare in un cordone ombelicale tossico, difficile da tagliare.

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Il tempo

La terza condizione che esalta l’importanza del ruolo prosociale, si sviluppa attorno al tempo richiesto dall’attività agonistica. La dedizione necessaria è diventata sempre più precocemente, incompatibile con qualsiasi altro impegno organizzato e con una vita di relazioni di qualità. E consuma. Nemmeno accendere il tripode come ultima tedofora ai Giochi olimpici di Tokyo, aveva permesso all’ex numero uno del tennis mondiale, Naomi Osaka, di liberarsi dal buio che aveva dentro. Già qualche mese prima aveva dato forfait agli US Open, poi al Roland Garros e aveva commosso il mondo denunciando la sua depressione, gli attacchi di panico, l’ansia che le toglievano la voglia e la forza di giocare. Com’è possibile, si è chiesta l’opinione pubblica. Può accadere si, per via di quella esclusività che l’agonismo moderno sollecita e che convive con i rischi della specializzazione precoce, dello sradicamento, della fusione tra persona e performance, della confusione tra allenamento e alienazione.

È successo a Naomi ma prima di lei ad Agassi a Phelps a personaggi noti che hanno fatto da portavoce per tanti altri atleti, meno famosi, prede di un disagio consumato in silenzio: sono gli abitanti inquieti di un ambiente agonistico in cui i loro adulti di riferimento, non sono stati capaci di proteggerli dalla voracità del bruciare le tappe e, con esse, la terra che hanno intorno. Naomi dopo aver avuto una figlia ha ritrovato il piacere di giocare: ora entra in campo serena, perché ha creato il ponte con la vita che sta fuori.

Ognuna di queste caratteristiche ha numerose sfumature che, nell’insieme, dipingono un quadro inquietante. Il CIO ha emanato delle linee guida per l’istituzione di un safeguarding officer col fine di creare un ambiente sicuro ed inclusivo che garantisca dignità e rispetto: in Italia ogni Federazione avrà il suo e, dal prossimo luglio, ogni club affiliato dovrà avere un modello organizzativo, un codice di condotta nonché una persona responsabile dedicata. Ma in attesa che il percorso ufficiale così avviato sortisca i suoi effetti, è bene ricordare che sono già attive iniziative esterne al sistema. È stato per “amore” per fortuna non in “eccesso”, se qualcuno si è attivato per affrontare il problema, già un bel po’ di tempo fa. Ricordo tra gli esempi virtuosi e concreti: 1) il progetto SAVE realizzato da Assist (associazione nazionale atlete) in collaborazione con DD (differenza donna) e l’osservatorio Faircoaching Cremona realizzato da Assist in collaborazione col comune di Cremona e l’Università di Verona; 2) Il libro denuncia Impunità di gregge. Sesso, bugie e omertà nel mondo dello sport. La prima inchiesta in Italia su abusi sessuali e omertà nel mondo dello sport. Scritto da Daniela Simonetti fondatrice di Change the Game, prima associazione italiana nata per combattere ogni forma di violenza all’interno del contesto sportivo. Se non fosse per la tentazione di quelle scorciatoie del pensiero, chiamate pregiudizi, la conoscenza della realtà sarebbe una lunga scoperta, lenta ma consapevole. Avremmo meno rapide certezze distorte e più autentica, lenta consapevolezza.

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