Annientare è qui, di fronte a me. Il file dell’ultimo libro di Michel Houellebecq —  uscirà in Italia venerdì 7 gennaio, trent’anni precisi dopo il suo esordio — mi è stato recapitato poche ore fa. Del nuovo romanzo parleremo tra qualche giorno. Ma per arrivarci bisogna ripartire da questa storia trentennale, fatta di romanzi e di poesie, di incursioni saggistiche e di tragici intrecci con l’attualità politica, che ha fatto di Houellebecq ben più di uno degli autori più importanti dell’ultimo quarto di secolo; ne ha fatto il solo autore capace d’imprimere il suo segno su questo quarto di secolo. Come fu Jean-Paul Sartre al suo tempo, come Goethe due secoli fa. Questo è, ne convengo, terrificante.

Libro dopo libro (in Italia oggi pubblicati dalla Nave di Teseo) lo scrittore francese ha composto un affresco raggelante della società contemporanea.

Un affresco che non necessariamente coincide con quello che questa società è, ma sicuramente con il modo in cui vede sé stessa: stanca, disperata, malinconica, frustrata, sempre sull’orlo del suicidio e facilmente sedotta dalle sirene dell’estremismo politico e religioso.

Quella di Houellebecq è una filosofia spesso ripetitiva, ma indubbiamente coerente e per ciò stesso convincente, che vede nella civiltà liberale un progetto inumano volto all’autodistruzione. La questione non è più semplicemente letteraria: l’enigma di Houellebecq è l’enigma della nostra epoca. È tempo di riaprire il caso.

Il caso Houellebecq

Dato sociologico fondamentale: Houellebecq, all’anagrafe Michel Thomas, è uno dei rarissimi intellettuali francesi che non viene dalla borghesia e non ha fatto le grandi scuole. Non è, come Sartre o Foucault, un prodotto della macchina della meritocrazia repubblicana. Viene dal ventre molle della classe media, da una famiglia disfunzionale, da studi di agronomia, da un lavoro alimentare. Ci voleva un maschio bianco comune per dare voce al disagio dei maschi bianchi comuni. 

La sua prima apparizione nel mondo delle lettere parigine è in realtà triplice: nel 1991, all’età di trentacinque anni, pubblica contemporaneamente un libro di poesie, un bizzarro manuale di sopravvivenza e una monografia sullo scrittore horror H. P. Lovecraft.

Nasce come poeta, Houellebecq, trovando la sua originaria cifra stilistica nello scontro brutale tra la forma elegante dell’alessandrino e la descrizione prosaica dei non-luoghi simbolo della società dei consumi: mezzi pubblici, ipermercati, piccoli appartamenti. Ma è un poeta part time, che si mantiene lavorando come informatico nelle grandi amministrazioni, e che consegna al libello Restare vivi un vademecum — «un metodo», recita il sottotitolo — per far convivere le proprie velleità artistiche con le delusioni della vita.

È nel suo saggio su Lovecraft che Michel Houellebecq fornisce la chiave di lettura dell’intero suo universo filosofico e letterario, sostanzialmente valida per i tre decenni a venire. Secondo lo scrittore francese, dietro ai miti di Cthulhu c’è l’orrore ineffabile della modernità; o più precisamente l'orrore della vita stessa che la modernità liberale ha scoperchiato.

Secoli di civilizzazione, ovvero di finzioni necessarie e beate illusioni, avevano messo l’umanità al riparo dalla consapevolezza della violenza annidata nel mondo. Ora che il progresso scientifico ha scacciato i miti vediamo le cose faccia a faccia, senza più nessun filtro, e proprio come i personaggi di Lovecraft ci esponiamo al rischio della follia.

Da qui la ricorrente nostalgia di Houellebecq per quei sistemi di credenze in grado di nascondere la verità con un velo pietoso, che si tratti della religione islamica o di un culto come quello di Rael. Paradossalmente la sua intera opera romanzesca, come già quella di Lovecraft, consisterà esattamente nel contrario: scavare a fondo nell’innominabile per mostrarne l’oscenità. Perché ci fai questo, Michel? Perché non ci hai lasciati nell’ignoranza?

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Il Karl Marx del sesso

Per trasformare quel poeta gracile e depresso nel più importante autore della sua generazione ci sarebbe voluta la sua trasformazione in romanziere, tre anni dopo, con Estensione del dominio della lotta.

Il libro è il manifesto del houellebecchismo, fin da quel titolo che annuncia la tesi centrale di tutta un’opera e di tutta una vita: la civiltà liberale è la continuazione dello stato di natura con altri mezzi. Col pretesto di emanciparci ci ha messi tutti contro tutti, fin dentro lo spazio dei rapporti affettivi e sessuali.

La trama del libro si riduce alla descrizione del tran tran quotidiano di un anonimo impiegato del terziario, scisso tra la constatazione del non-senso della vita e le sue crudeli fantasie di rivalsa. Il racconto, restituito col tono monocorde di un narratore depresso e disilluso, è punteggiato da riflessioni variamente ironiche, provocatorie, argute o violente. Alcune sarebbero impubblicabili oggi.

Se l’autore si fosse fermato lì, il libro sarebbe comunque rimasto tra le testimonianze di una certa letteratura cinica degli anni Novanta – all’epoca si diceva “pulp” in omaggio a Quentin Tarantino – assieme ad American Psycho di Bret Easton Ellis, Fight Club di Chuck Palahniuk e agli autori della “gioventù cannibale” in Italia. 

Estensione vanta un primato che gli è stato riconosciuto persino dal New York Times: quello di avere introdotto in letteratura, con un ventennio di anticipo, la figura dell’incel, contrazione di “involuntary celibate”.

L’incel non è soltanto un maschio etero escluso dalla soddisfazione del proprio desiderio sessuale ma — proprio come il narratore del romanzo — un individuo che si convince di essere vittima di un ordine sociale che lo penalizza.

Questo ordine è, secondo Houellebecq, quello nato dalla liberazione sessuale. In breve: se nel vecchio mondo tutti gli individui finivano bene o male per trovare un o una partner, nel nuovo mondo della libera concorrenza assisteremmo a fenomeni — tipicamente capitalistici — di concentrazione e di pauperizzazione, che consegnerebbero una larga parte di umanità alla solitudine.

Gli incel direbbero: da una parte i lupi alpha, dall’altra i beta. È una lettura economicistica delle relazioni tra uomini e donne quella che Houellebecq, “il Karl Marx del sesso”, propone in questo libro e in tutti i successivi; non per esaltarla quanto al contrario per denunciarla. Il darwinismo sociale è per Houellebecq la legge perversa di un mondo fuori sesto, segno di un’irrimediabile decadenza.

Nietzsche, più che un modello, un avversario da combattere: il filosofo che ha voluto abbattere l’unica cosa che si frapponeva tra gli esseri umani e la natura matrigna, ovvero la legge morale.

(AP Photo/Thibault Camus)

Contro il Sessantotto

Se in Estensione c’è già una visione del mondo ben definita, i successivi romanzi si incaricheranno di completare l’affresco. Nel 1998 deflagra come una bomba atomica il successo delle Particelle elementari. Non c’è niente da fare: riletto dopo un ventennio, il secondo romanzo di Houellebecq resta il migliore.

Forse semplicemente perché questo libro, centrato sulla storia di due fratelli dalla giovinezza negli Sessanta e Settanta fino alla vita adulta, è quello che aderisce nel modo più convincente alla forma-romanzo — in questo caso  una specie di saga familiare.

L’uso frequente del tempo imperfetto restituisce l’effetto sgranato di un vecchio documentario. Serviva un ampio arco temporale per descrivere la parabola della società occidentale dopo la rivoluzione sessuale e sferrare un durissimo j’accuse a quegli intellettuali — non a caso, spesso nicciani autoproclamati — che con il pretesto di combattere il capitalismo ne avevano invece propiziato il trionfo.

La critica di Houellebecq al progressismo non sorge dal nulla ma nasce dal movimento, inevitabilmente generazionale, rivolto contro l’eredità del Sessantotto. Nel 1986 aveva già mosso le acque il pamphlet anti-sessantottino di Alain Renaut e Luc Ferry, futuro ministro nel governo Chirac.

Nel 1991 era uscito L’impero del bene di Philippe Muray, saggista vicino a Houellebecq, uno dei primi libri a denunciare quello che all’epoca si iniziava a chiamare “politicamente corretto”. Cosa rendeva dunque tanto originale l’approccio di Houellebecq?

Il romanziere non faceva nulla di totalmente nuovo, sul piano teorico, mettendo al centro la questione del sesso — fin dal 1977 si era scritto, in un fortunato saggio, di «nuovo disordine amoroso» — tuttavia nel metterlo in scena offriva al lettore delle situazioni familiari nelle quali riconoscere lo spirito del tempo: coppie disarticolate dai divorzi, maschi insicuri e solitari, femmine in balìa degli appetiti tirannici dei maschi.

Houellebecq dava forza alle sue tesi sostituendo il materiale empirico e lo studio quantitativo con la sua vivida inventiva letteraria. Proprio la natura letteraria dei suoi testi lo ha messo al riparo dall’accusa di avanzare un discorso politico reazionario — cosa che indubbiamente faceva. Spingendosi a descrivere una cospirazione satanica come naturale evoluzione della cultura progressista, anticipava addirittura le paranoie di QAnon.

Eppure nel fare questo l’autore appariva come figlio di quello stesso Sessantotto che criticava.  Erano stati i pensatori della generazione precedente, venuti dall’ultrasinistra, a teorizzare prima di lui la crisi culturale della società dell’abbondanza, a denunciare la rigidità dell’economicismo marxista, a descrivere le conseguenze dell’atomizzazione e del narcisismo, a rivendicare il ruolo dell’immaginario come collante sociale.

Ed era nel fermento intellettuale degli anni Settanta che erano state riscoperte le amare profezie di Alexis de Tocqueville sulla democrazia, sistema instabile che inseguendo l’uguaglianza produce sempre nuova concorrenza.

Negli anni l’autore delle Particelle si sforzerà di nascondere le tracce di ogni possibile influenza intellettuale, ma in qualche modo aveva respirato l’aria del suo tempo. Non sorge dal nulla, il pensiero di Houellebecq, ma compone una galassia di idee minoritarie in un prodotto culturale facilmente fruibile, deviando il corso della storia delle mentalità e traghettando un pezzo della sua generazione da sinistra verso destra.

Pop porno

Una cosa che a un certo punto abbiamo scordato è che all’inizio degli anni Duemila si leggeva Houellebecq anche per il porno, come un tempo Henry Miller. La coppia Lanzarote (2000) e Piattaforma (2001) lo trasforma per qualche anno nell’aedo del turismo sessuale, avanguardia della depravazione occidentale.

L’autore sembrava avere trovato una ricetta efficace nell’alternanza volutamente meccanica tra scene erotiche e digressioni teoriche, senza peraltro dare troppa importanza alla verosimiglianza delle situazioni, che spesso sembrano davvero uscite da qualche dozzinale fantasia cinematografica.

Tutto suona finto, meccanico, didascalico o caricaturale. Inoltre Houellebecq gioca sulla confusione tra autore, narratore e personaggi, senza preoccuparsi di passare lui stesso per un pervertito, un razzista o un sessista. La letteratura gli serve da lasciapassare universale.

Così il romanziere dà forza alle tesi del filosofo apparecchiando il mondo irrealistico di depravazione che gli fa gioco. Osservati oggi, i gargantueschi appetiti erotici dei personaggi houellebecchiani suonano eccessivi, minoritari o perlomeno datati.

Il sesso è meno presente nelle vite e soprattutto nei pensieri, figuriamoci farne la chiave di volta di tutta la nostra disperazione: abbiamo cose più serie alle quali pensare. Quanti di noi hanno l’abitudine di volare all’altro capo del mondo per sfruttare la prostituzione minorile?

Si spera pochi, sospetto quasi nessuno. Quanti frequentano club scambisti, quanti praticano anche soltanto un po’ di innocente casual sex? Molti meno di quanto sembrerà ai posteri leggendo Houellebecq, mannaggia.

È forse tempo di riconoscere che la cosiddetta rivoluzione sessuale è stata tutt’al più una parentesi, o un esperimento sociale con molti lati oscuri come ha rivelato il movimento #MeToo. Il nuovo mondo, se pure è davvero esistito, appare vecchio ormai. Forse perché — come Houellebecq ha voluto dimostrarci per filo e per segno — non funzionava.

Questo disfunzionamento strutturale è il tema del successivo La possibilità di un'isola, nel 2005, romanzo ambizioso che tenta una fusione fredda tra realismo e fantascienza. Di copia in copia sbiadisce la memoria di Daniel primo, dell’occidente stanco e del suo rassegnato suicidio.

Cloni futuri ne commentano l’agonia, cercano un’identità oltre le coordinate genetiche dei propri corpi effimeri, artificiali, pronti ad essere sostituiti. Il senso della storia umana è un’aporia biologica, e nemmeno la tecnologia raeliana della giovinezza eterna ci salverà.

In pieno afflato profetico Houellebecq pubblica un romanzo scritto come fosse il Vangelo, clonandosi all’ennesima potenza. La morale è sempre la stessa: la felicità è una piattaforma precaria tra la solitudine e la morte, un’isola (im)possibile. L’esistenza, un paradosso crudele in una selva di digressioni.

Il remix di consueti ingredienti e provocazioni consegna la sintesi eugenetica del pensiero dello scrittore francese, autoproclamato “Zarathustra delle classi medie”. Dio è morto, Marx è morto, e anche l’Uomo, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, non si sente tanto bene. 

Venerato profeta

Il tentativo di conquistare la piena legittimazione letteraria fallisce con La possibilità di un’isola ma viene realizzato cinque anni dopo con La carta e il territorio, libro che pare scritto per ottenere il prestigioso premio Goncourt e che in effetti lo ottiene: meno sesso e meno cinismo, nessuna tirata reazionaria o sessista, una trama altamente didascalica che satireggia sul mondo dell’arte contemporanea, una sapiente autoironia, ma anche pochissimo di nuovo da aggiungere.

Houellebecq si è ormai musealizzato? Houellebecq ha fatto, come Goethe, una cosa gigantesca: ha inventato un tipo umano. Ma Goethe non ha passato trent’anni a scrivere a riscrivere il Werther.

Quando la sua carriera sembra ormai aver toccato la vetta, accade l’impensabile: nel gennaio 2015, l’uscita del suo romanzo Sottomissione si sovrappone all’attentato terroristico a Charlie Hebdo, dove assieme agli altri membri della redazione del giornale satirico perde la vita un caro amico dello scrittore, Bernard Maris, peraltro autore del libro Houellebecq economista.

Si realizza un sorprendente cortocircuito interpretativo: sebbene Sottomissione immaginasse una pacifica conversione della Francia all’islam, cioè esattamente il contrario di una militarizzazione dello scontro, la superficiale coincidenza è valsa a Houellebecq la fama di profeta.

Era già accaduto con Piattaforma, che metteva in scena un attentato di matrice islamica pochi mesi prima dell’11 settembre 2001.

Il romanzo tuttavia non intendeva essere una profezia sull’avvenire dell’Europa, come viene oramai considerato nei circoli di estrema destra, bensì una descrizione della condizione esistenziale dell’uomo moderno tentato dalla conversione a valori pre-moderni: non a caso l’autore aveva dichiarato di averlo a lungo immaginato come un approdo al cristianesimo.

Dopo averlo spesso sbeffeggiato, Houellebecq aveva cambiato idea sulla religione islamica? Non proprio: tra le righe del romanzo, che in superficie presenta innumerevoli convincentissime ragioni per abbracciare il culto di Allah, si articola però una denuncia delle conseguenze presunte di questa conversione: per cominciare dal sacrificio di ebrei, donne, omosessuali in nome di un compromesso storico vigliacco tra sinistra e fondamentalisti.

Una vena esaurita?

Tutto ciò che combatte la vita, argina la natura o maschera il mondo pare buono a Houellebecq. Morale, religione, arte, letteratura, sesso, divertissement… A lungo, memore dell’insegnamento del filosofo positivista Auguste Comte, lo scrittore si era convinto che una possibile soluzione al disagio di stare al mondo fosse abbracciare una religione della Scienza.

Oppure trovare riparo nell'Amore: illusione meravigliosa, capace di distogliere gli esseri umani dalla bassezza e dall'egoismo. Illusione oramai impossibile, di cui tutta l’opera dello scrittore francese racconta l’assenza.
Allora gli psicofarmaci? Il suo penultimo romanzo, Serotonina (2019), sembrava ratificare con l’ennesima variazione sul tema l’inevitabile esaurimento di una vena creativa che reggeva su una singola, grande intuizione, oramai trentennale. A meno che la soluzione proposta non sia quella, più drastica, riassunta nel titolo del suo nuovo romanzo: Annientare. Ora non resta che leggerlo. Per risolvere l’enigma bisogna attendere la prossima puntata.

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