Uno dei più grandi misteri per chi scrive non è trovare la propria voce, come insegnano le scuole di scrittura, né scoprire come mantenerla nel tempo, ma trovare la voce degli altri.

Come parlano davvero le persone? Ogni volta che inventiamo un personaggio, lo facciamo conversando con una voce immaginaria che gli appartiene. A volte ci somiglia, a volte è la voce di qualcuno che conosciamo, oppure è lontanissima da noi nello spazio e nel tempo, e ci divertiamo a riempirla di parole impossibili, che ci hanno sempre affascinato ma non hanno mai trovato un’occasione: una volta ho letto un romanzo in cui la protagonista diceva “zefireo” riferendosi al ragazzo che le piaceva. È una parola che non funziona bene in una lettera d’amore o in un messaggio di questi tempi, ed è per questo che esistono ancora i romanzi: ci permettono di essere felicemente desueti.

C’è una voce, in particolare, che è difficilissima da trovare per chi scrive: quella di chi è fragile o subalterno, la voce di chi è stato ferito e sconfitto. Dalla classe sociale, dalla storia, magari dalla guerra. Il romanzo prova a riscattare queste vite. Non lo fa in termini di giustizia, ma di bellezza.

È il motivo per cui spesso chi scrive si sente costretto a trovare una voce “falsa” per i propri personaggi, perché teme che ascoltandoli davvero, questi sappiano usare solo parole sciupate e brutte: i ragazzi di vita di Pasolini parlavano in dialetto, ma erano sempre poetici, alla fine, per quanto involontariamente.

La narrativa popolare è costellata da espressioni incantate e formule magiche molto lontane dalle strade in cui nasce. Operai, contadine, ragazze di strada, manovali, oggi rider o braccianti: è raro riuscire a captare davvero le loro voci quando vengono romanzati: o parlano in maniera caricaturale per un presunto amore di verismo, oppure vengono liricizzati fino all’esasperazione, diventando improbabili creature esotiche. In tutti e due i casi, è raro riuscire a “sentirli” davvero.

Forse uno degli scrittori più bravi a raccontare l’esistenza anfibia degli emarginati e dei subalterni è stato Roberto Bolaño, melodioso e attento nella sua resa del margine. Lo stesso si può dire di Clarice Lispector nel suo ultimo libro L’ora della stella, un romanzo sulla povertà e la vita minore di una ragazza nordestina che, come scriveva Hélène Cixous, non è per niente povero. E poi Cesare Pavese, certo: basta rileggere La bella estate per rendersi conto che la vita delle sue ragazze periferiche e modeste non è mai una canzone stonata, ma tintinna di una malinconia viva, tipica di chi è stata a lungo dall’altra parte della vetrina.

Ma io penso di non aver mai sentito la voce di una ragazza del popolo, così piena e viva di cose, fin quando non ho letto La piazza del Diamante di Mercè Rodoreda. È un libro che porta in superficie quello che per stortura viene tenuto sommerso, dimenticato o piegato a strane pedagogie. Quando ho iniziato a leggere la storia di Natàlia, una ragazza che diventa donna nelle strade di Barcellona durante la guerra, ho avvertito un’esaltazione crescente, un senso di vendetta e di miracolo allo stesso tempo, quello che spero si rinnovi sempre nella mia vita da lettrice. Dopo l’adolescenza, diventa sempre più raro trovare romanzi capaci di scatenare un’intima rivoluzione, di insinuarsi con prepotenza tra i libri della vita: ecco perché è giusto dire che La piazza del Diamante si legge con lo stesso cuore, e la stessa speranza, dei quindici anni. Ecco una cosa familiare ma nuova, ecco ciò che aspettavo: ecco come parlano le persone, certe persone.

Non credo che Mercè Rodoreda in questo romanzo scritto all’apice della sua maturità volesse dimostrare di avere un orecchio assoluto per le voci degli altri. Non credo che fosse questo l’oggetto della sua ricerca letteraria. Credo però che Rodoreda abbia avuto un orecchio disposto e perfetto per una sola persona, per Natàlia detta Colombetta e per lei soltanto: il modo in cui la ascolta e ce la racconta è infinito, totale, e trasforma lei nella cosa più importante. In assoluto.

Lo fa sin dall’inizio, quando la protagonista dice al lettore che lei vive “come deve vivere un gatto: su e giù, a coda bassa, a coda ritta, adesso è ora di mangiare, adesso è ora di dormire; con la differenza che un gatto non deve lavorare per vivere. A casa si viveva senza parole e le cose che portavo dentro mi facevano paura perché non sapevo se erano mie...”

C’è candore in questa ammissione, ma non c’è ingenuità. Se fosse davvero ingenua, Natàlia non si porrebbe il problema di quel che le manca. In lei c’è una sofferenza leggera e pensata allo stesso tempo. Persino nei suoi momenti peggiori, quando ipotizza il suicidio e di uccidere i suoi figli per gli stenti, e sente di avere solo un grido in corpo, non perde una certa radiosità, una dote pulsante.

La follia rada che la prende, a un certo punto, non è troppo violenta né sanificata: è una crisi della presenza che ha una musica tutta sua, e forse risulta ancora più dolorosa per questo, perché contiene lo smarrimento e la terribile euforia che c’è nel distaccarsi dalle cose terrene e non tornare mai più. Non so se Rodoreda fosse appassionata di musica classica, ma nel leggerla ho ritrovato la stessa capacità di presentare la tragedia sotto forma di estasi.

Il talento della sorpresa

Dopo un corteggiamento fulmineo, Natàlia si ritrova sposata con Quimet che ride e mai dice e si rivela un marito passionale e collerico capace di riempirle la casa di colombi, salvo poi partire per la guerra e morire come tanti altri. La festa a cui si incontrano, la costruzione di un amore e di una casa, i consigli delle vicine, la maternità tardiva e poi solitaria, i rituali del corteggiamento che si dissipano in una stabilità misteriosa per entrambi, ancora così giovani e insicuri su cosa fare di loro stessi. Natàlia non prova paura, ma un vero e proprio spavento: se fosse solo paura, non ci sarebbe la sorpresa: invece la protagonista conserva e trattiene la sorpresa come se fosse un talento.

Preferisco chiamarla così piuttosto che ingenuità, o semplicità da illetterata: queste sono interpretazioni secondarie, tipiche del lettore colto e addomesticato convinto che la sensibilità abbia una grammatica necessariamente complessa.

Più che un romanzo, quello di Rodoreda è un esercizio all’ascolto: pare, in certe pagine, di sentire tutte le risate di Natàlia, i suoi pianti, la sua noia, la sua fame. A tratti Rodoreda anticipa addirittura la scena di un film di John Cassavetes. Durante la lettura, mi è venuto spontaneo pensare al regista americano e a tutte le improvvisazioni (non così spontanee, con il senno di poi) con cui sperava di restituire sullo schermo la vita di certi uomini e certe donne in maniera naturale, sbandata, assoluta, solo per rendermi conto che il suo fervore aveva già trovato una forma precisa in questo romanzo del 1962. È difficile leggere La piazza del Diamante senza pensare a Gena Rowlands in Una moglie: si tratta di periodi storici e vicende diverse, ma in entrambi i casi le protagoniste sono riuscite a cambiare l’immaginario attorno al nucleo domestico, su come funziona l’intimità di una donna al margine, soprattutto quando è madre. La forza de La piazza del Diamante non nasce dalla proposizione della semplicità, che rischia di essere stucchevole, ma proprio da una lingua duttile, plastica, romantica, che fa addobbi belli dal niente e non si sciupa mai. È un’opera che è facile da amare non perché è vera, ma perché è possibile: c’è molto più coraggio nell’immaginare che una ragazza Natàlia potesse parlare così, e pensare cose così, e vivere così, che in un documentario in cui una vittima della guerra civile viene schiacciata dalla storia e dall’ineluttabilità del suo destino. Mercè Rodoreda non ha scritto un referto clinico, come tanti romanzieri del neorealismo, né ha abbellito la storia con le imprese tormentate ed eroiche di un Hemingway, i cui protagonisti hanno sempre una voce assertiva e perfetta, ma anche per questo meno magnetica: anni dopo i fatti, mentre ormai viveva in esilio, la scrittrice ha semplicemente lasciato che una creatura della sua immaginazione le parlasse, e le dicesse che era stata, che si era innamorata, che aveva passeggiato per le strade di Gràcia, e un giorno forse era impazzita.

Spesso la letteratura ci fa riconoscere la voce di qualcuno che abbiamo incontrato nella nostra vita e sa catturare il suono di una precisa esistenza, di una piccola comunità o persino di una nazione intera, ma la letteratura diventa perfetta quando ci presenta una voce che non abbiamo mai sentito prima, eppure la riconosciamo subito, sappiamo che esiste, e non smettiamo mai di sentire il suo suono nella nostra testa. Mesi dopo la lettura, e sospetto che questo sarà vero per anni, sento ancora l’eco di Natàlia, sento ancora l’esasperazione e la voglia di Colombetta, sento la sua solitudine e sento la sua timida speranza: sento le parole che non pensava di avere, e che invece ha avuto, e sento tutto l’amore con cui Mercè Rodoreda è stata capace di tirarle fuori.

© Riproduzione riservata