È stato difficile, ha dichiarato Pietro Castellitto, sentirsi dire no da tutti i produttori a cui – nel corso degli anni – ha proposto i tre film che aveva scritto. Così difficile che, a un certo punto, aveva quasi rinunciato al sogno di fare il regista rassegnandosi a esprimersi unicamente nella sua già consolidata carriera di attore (cominciata, da neonato, in una culla nel film Il grande cocomero di Francesca Archibugi).

Quanto tempo è durata la sofferenza generata dai rifiuti? A 22 anni ha scritto la sceneggiatura del lungometraggio I predatori. A 28 anni – per quella stessa sceneggiatura, diventata film – ha ricevuto il premio Orizzonti al Festival di Venezia.

L’intervallo che coincide con la sua crisi esistenziale è davvero un tempo così lungo da risultare straziante e insopportabile?

Non si è reso conto che, in Italia, debuttare alla regia a soli 28 anni è un privilegio riservato a pochi? Che l’età media degli esordienti supera ormai l’asticella dei 40 e che la parola “giovane” si continua a usare anche per un artista che si avvia al mesto traguardo dei 50?

Se sei il figlio di Margaret Mazzantini e Sergio Castellitto devi per forza avere una corsia preferenziale che porta dritta alla realizzazione dei tuoi sogni. Nel tuo destino la parola “fallimento” non è neanche contemplata, recita un altro luogo comune.

E salire sul palco del Festival di Venezia e sabotare il protocollo di una premiazione classica e composta balbettando, tra le risate e l’imbarazzo degli smoking e degli abiti da sera, “… eh… no…diciamo… Soltanto gli infami e i traditori sono bravi nei ringraziamenti”.

… ma è pazzo? … come si permette?

Superati tutti i pregiudizi, il punto è che I predatori è un film bellissimo.

I predatori è bellissimo

Nel ringraziamento del regista, pronunciato – statuetta in mano – con voce esitante, nel claudicare delle sue parole, c’è un disagio. Un senso di inadeguatezza che, di questo film, probabilmente sono stati il combustibile.

Pietro, disorientato, sembra preso dagli spalti della curva sud mentre aspetta – chattando su WhatsApp – l’inizio della partita. Preso dalla sella di uno scooter mentre – alla vista di un agente con paletta – si nasconde, senza casco, dietro l’amico guidatore. Preso e catapultato su quel palco.

Il suo profilo Instagram racconta in 61 fotogrammi la fulminante traiettoria che, da una festa con gli amici, lo catapulta al Lido di Venezia.

Foto della nonna. Foto di un viaggio all’Avana. Foto di lui allo stadio Olimpico. Video della famiglia che, in cucina, intona un coro romanista. Foto del padre, del fratello, delle sorelle.

Foto improvvisamente rimpiazzate dalle facce degli attori del suo film d’esordio. Pietro dice di non aver mai sofferto la competizione con i suoi genitori e che, a farlo soffrire, sono stati piuttosto i pregiudizi legati al fatto di essere “il figlio di…”.

Come se “figlio di” fosse una voce specifica del suo passaporto. Pregiudizi con cui è inevitabilmente entrato in contatto al momento di costruirsi una carriera… ma - forse anche solo inconsapevolmente – col talento dei suoi genitori, Pietro deve averci fatto i conti.

Pietro che cresce… attore, aspirante regista, aspirante sceneggiatore… è come se davanti a sé proiettasse sette ombre. Nonno Carlo (scrittore, storico, poeta), nonna Anne (pittrice), mamma Margaret (scrittrice e sceneggiatrice, ma anche ex attrice), papà Sergio (regista, sceneggiatore, attore), zia Moira (agente cinematografica), zia Giselda (attrice), zia Cristina (giornalista).

Ombre di parenti che – dall’alto delle loro carriere – qualsiasi cosa faccia, finiscono per precederlo. «Ma se lo ricorda, lei, quant’ero secco da ragazzino, io? Dicevano che non c’avevo l’ombra… però ci pensava Claudio a fammela… m’ha sempre difeso, suo figlio!», esclama il protagonista di una delle prime scene.

Di quelle presenze che, sia pure protettive, rischiavano di risultare insopportabili e ingombranti – arrivando a cancellare la sua, di ombra – presenze che in mancanza di talento e di personalità sarebbero state un alibi perfetto, Pietro ha saputo fare il suo punto di forza.

Si è nutrito degli stimoli che lo hanno circondato, li ha assorbiti, fino a esserne permeato, fino a riempirsene. Fino a masticarli, digerirli, reinventarli dentro ogni scena, ogni inquadratura, ogni battuta del suo potente esordio.

Ventotto anni condensati in centonove fervidi minuti in un film in cui la presenza della famiglia è sottesa, trasuda, traspare come in una filigrana.

Dalle diagnosi che il medico Pierpaolo Pavone (Massimo Popolizio) scandisce al sintetizzatore vocale del suo computer, caratterizzate da un così scrupoloso impiego di vocabolario tecnico da sembrare un omaggio al nonno Carlo Mazzantini (redattore di migliaia di voci della Treccani) al quadro con gabbiani, opera della nonna pittrice, a cui aveva a sua volta già reso omaggio il marito usando un altro suo quadro come copertina del libro Restano le nuvole.

I predatori è un film che Pietro ha scritto e sceneggiato da solo, senza l’aiuto di nessuno ma alla stesura del quale è come se, nel corso dei suoi 28 anni, la sua famiglia, tutta la famiglia, abbia -– giorno per giorno – preso parte.

Un film co-sceneggiato, quindi. In questo senso essere figlio e nipote di intellettuali e artisti, che anche mentre litigavano si sparavano addosso citazioni – sicuramente – lo ha aiutato.

I predatori racconta la storia di due famiglie, i Pavone e i Vismara (intellettuale e borghese la prima, fascista e proletaria la seconda), che un deragliamento di destini casualmente fa incontrare.

La rappresentazione di questi due mondi, così diversi – eppure a tratti quasi sovrapponibili – è realistica e spietata. Realistico il linguaggio, realistica la recitazione. Spietati i personaggi, simili ad animali della catena alimentare: al tempo stesso prede e predatori. Spietata la comicità, crudele, come è difficile vedere in Italia.

Ludovica Pensa (Manuela Mandracchia), affermata regista, è così assorta a seguire dal monitor la registrazione di una scena del suo nuovo film da non rendersi conto che un condannato a morte per impiccagione, a causa del cedimento dell’imbracatura, mentre agonizza – come da copione – appeso al cappio, rischia veramente di morire.

Realtà e finzione

Un doppio binario di realtà e finzione, questo, che deve aver attraversato anche la vita del regista.

Pietro cresciuto sul set dei film del padre.

Pietro protagonista di Venuto al mondo, uno dei libri più famosi della madre. Realtà e finzione compenetrate al punto da risultare, a volte, indistinguibili, una delle tante interpretazioni possibili di un film complesso e con infinite chiavi di lettura. Un film bellissimo e molto divertente.

Anche la colonna sonora, affidata a Niccolò Contessa, cantautore e produttore musicale di talento, si fonda su un’intuizione davvero interessante: è come se alcuni personaggi se le scegliessero da soli, le canzoni che fanno da sottofondo alla loro presenza in scena.

Una compilation

Come se, animati da ritmo e vibrazioni proprie, infilassero la moneta in un juke box, dando il loro personale contributo a quella che, oltre a essere una riuscita colonna sonora, è anche una coinvolgente compilation. Famiglia Pavone, cena al ristorante: uno dei ragazzi ascolta nei suoi AirPods Cono gelato della Dark Polo Gang.

Famiglia Vismara, corsia di ospedale: l’anziana madre (Marzia Ubaldi) guarda in televisione un bambino che canta Aeroplano (brano scritto da Max Pezzali nei primi anni Novanta e da lui interpretato insieme alla quindicenne Caterina Rappoccio).

Famiglia Vismara, carcere – sala d’aspetto: il figlio dodicenne sente al cellulare Luci blu (canzone, degli ZetaZeroAlfa, gruppo rock di destra il cui leader e frontman, Gianluca Iannone, è anche il Presidente di CasaPound). Centonove minuti densi di citazioni e indizi (neanche Agatha Christie, nel suo Assassinio sull’Orient Express, ne aveva seminati così tanti).

La partita a ping pong, sport iconico della Cina comunista, giocata su un tavolo ricoperto da una gigantesca croce celtica. Le corna di cervo che, appese su un camino, fanno da sfondo all’abbraccio fedifrago tra Pierpaolo e Gaia (Anita Caprioli).

Le disquisizioni simmetriche riguardanti gli insetti, incentrate sul calabrone (famiglia fascioproletaria), sui moscerini alati (famiglia radicalborghese). I titoli di coda abbassano la serranda su un mondo schizofrenico che intorno a noi, però, continua a esistere.

Realtà e finzione di nuovo profondamente interconnesse.

Il domestico filippino di casa Pavone registra, come un sismografo, le improvvise oscillazioni dell’umore della signora Ludovica con la flemma di chi ormai le considera normali. Probabilmente questo film è un monito.

A non rassegnarsi mai. A non cadere nella trappola dell’assuefazione. A non adeguarsi all’uniformità di sguardi. Perché in fondo è così che si diventa bravi nei ringraziamenti. Che si diventa infami, traditori di noi stessi.

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