The Good Dog è un gruppo di Manchester: ha pubblicato un album, ma non sarà mai in concerto. Musica, biografie, immagini: tutto è stato creato con l’Ia dagli spagnoli di All Music Works
«Questo gruppo di base a Manchester cattura l’energia grezza e il cantato tagliente che hanno definito il rock britannico», racconta la nota di presentazione di The Good Dog, sul sito della loro label All Music Works.
Il leader della band, senza nome, ha i capelli rossi e non sorride mai, nelle foto in cui è ritratto in studio, oppure per strada. È sempre lui in primo piano, anche nell’immagine che mostra la sala prove mentre provano un pezzo, il cantante che imbraccia la chitarra (ecco, qualcuno potrebbe notare che alla mano sinistra manca un dito, ma forse è solo un’impressione).
The Good Dog appare come una band particolarmente prolifica, se pensiamo che solo nello scorso inverno ha pubblicato due singoli, un ep e un intero album.
Anche il sound, gradevolissimo, si è evoluto rapidamente: in Looking for Answers i riferimenti agli Arctic Monkeys erano fin troppo evidenti, ma già in Fish&tits, il disco pubblicato solo tre mesi dopo, i brani sono molto più raffinati, con arrangiamenti che vanno in direzione del britpop, del garage e di tutto quell’indie rock inglese degli anni Duemila. La nota dice anche che «la loro presenza sul palco e la capacità di connettersi con il pubblico li hanno resi una forza irresistibile nella scena musicale».
La protesta Uk
E questo forse è l’aspetto che potrebbe lasciarci più disorientati: The Good Dog è una band che difficilmente potremo vedere in concerto. Tutto, la musica, la biografia, le immagini, è stato infatti creato con l’intelligenza artificiale.
Con un approccio dirompente e che vuole essere rivoluzionario per l’intera industria musicale, la spagnola All Music Works è la prima casa discografica in cui tutta la musica e gli artisti sono opera di programmi di Ia.
Non si tratta dell’unico esperimento di questo tipo.
È ancora in corso Saremo AI, risposta virtuale al più famoso Festival della canzone italiana, in cui ogni utente può votare online il vincitore di un concorso tra cantanti creati dall’intelligenza artificiale, ognuno con il proprio singolo, ma anche biografia, interessi, profili social, una discografia ascoltabile sulle piattaforme.
È la fine della musica per come l’abbiamo conosciuta finora? I musicisti veri saranno sostituiti da armate di imitatori artificiali, addestrati con brani che dovrebbero essere tutelati da copyright? E cosa ne sarà, in tutto questo, dei concerti dal vivo, di quell’incontro possibile, fisico, con chi ascoltiamo e amiamo?
È davvero questo che vogliamo? Se lo sono chiesti oltre mille musicisti britannici, tra cui Damon Albarn, Kate Bush, Annie Lennox, che qualche settimana fa hanno pubblicato un album silenzioso, intitolato appunto Is This What We Want? per protestare contro le riforme del governo britannico, troppo permissive in materia di diritto d’autore, proprio a favore dei sistemi di Ia.
Il parere di Magaudda
«L’intelligenza artificiale per il contesto musicale è un’evoluzione di una serie di tecnologie, in relazione a produzione, consumo e distribuzione, in cui si automatizzano tutta una serie di processi», spiega Paolo Magaudda, professore associato di sociologia della cultura all’università di Padova, autore insieme a Tiziano Bonini de La musica nell’era digitale (Il Mulino, 2023).
«È negli anni Cinquanta che iniziano le prime forme di automatizzazione della composizione, attraverso il computer. Negli ultimi anni c’era stata una serie di piccoli avanzamenti, ma ora c’è uno scenario completamente differente con alcuni sistemi che permettono di generare musica, spezzoni di brani, imitazione delle voci, intere canzoni».
Le leggi sul copyright, che cambiano tra diverse aree del mondo, sono certamente uno dei punti critici.
«Poi c’è la preoccupazione dei musicisti di venire sostituiti dall’intelligenza artificiale. È verosimile, soprattutto se pensiamo alla musica fatta circolare dalle piattaforme come Spotify, che in uno scenario di automatizzazione possono utilizzare l’Ia per produrre autonomamente contenuti musicali invece di prenderli dai creativi umani», riflette Magaudda.
«C’è anche da dire che queste piattaforme già penalizzano molto i musicisti», che spesso hanno protestato contro i guadagni troppo bassi per ogni ascolto in streaming.
Ma la posta in gioco pare essere molto più alta. «La preoccupazione è che con la riconfigurazione portata da questi strumenti negli anni a venire si andrà nella direzione di un accentramento di potere ancora più forte attorno alle aziende che direttamente sviluppano l’intelligenza artificiale o che grazie a questi sistemi acquisiscono posizioni ancora più dominanti nei loro settori. Tanto più rilevante in quelli strategici, se pensiamo all’intelligenza artificiale applicata ai sistemi di sorveglianza, alla tutela dell’ordine pubblico, ad aspetti legati ai diritti civili».
Una deriva possibile, in chiave antidemocratica, che spaventa.
Le politiche Ue
Ci sono poi «i costi sempre più preoccupanti per il mantenimento delle infrastrutture digitali, con la costruzione di data center sempre più grandi, spesso collocati in zone naturali, dove c’è molta disponibilità di acqua e di terreno. Sicuramente questa è una delle questioni che ruotano attorno allo sviluppo sempre più avanzato di tutti questi sistemi».
In prospettiva lo scenario è tutt’altro che roseo, ma forse non tutto è perduto. «Uno degli aspetti di speranza», ragiona Magaudda, «è che l’Unione europea da anni è il posto più sensibile al mondo rispetto alle conseguenze dell’innovazione tecnologica nei vari ambiti della società.
Le politiche europee vanno nella direzione di introdurre qualsiasi tecnologia con delle forti regolamentazioni, cercando di avere una qualche forma di controllo. Quello che produrrà l’intelligenza artificiale sulla società, sulla cultura, sulle relazioni dipende anche dalle scelte che verranno fatte per governarla.
Viviamo in una società globalizzata e iperconnessa, dove è complicato allineare il governo di queste tecnologie tra i vari paesi, ma l’aspetto positivo è che c’è sempre qualcosa che si può fare, e noi siamo in una regione del mondo che da questo punto di vista è più attenta».
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