Mi è capitato recentemente, parlando con un amico che si occupa di letteratura per l’infanzia, di sentirmi dire: «Sai a me Gianni Rodari proprio non piace. Sarà che me lo hanno fatto leggere da bambino come fosse il Vangelo, ma adesso, potendo, lo evito, e non lo leggerei mai ai miei figli». Dopo un iniziale sgomento mi ha fatto piacere, e lo dico da rodariana convinta, sentire spezzare il coro pressoché unanime degli entusiasti di Gianni Rodari. Un coro che ha attraversato questo lungo e difficile anno del centenario che cade oggi, 23 ottobre, il giorno in cui Rodari nacque a Omegna, sul Lago d’Orta da un fornaio e un’operaia.

Avrei quasi voluto dirgli: perché non lo scrivi da qualche parte che Rodari non ti piace, perché non rendi pubblico questo tuo giudizio? Servirebbe. Farebbe chiarezza. Non è possibile infatti che uno scrittore così complesso, così denso di richiami ideologici, così politico, piaccia a tutti.

Cosa è successo, anzi, mi domando? Quando è stato che i suoi scritti liberi e leggeri come un uccello («Il faut etre léger comme l’oiseau, et non comme la plume») sono stati chiusi in gabbia, uccellini in gabbia, diceva Mario Lodi e addomesticati. Quando Rodari ha iniziato a diventare il poeta gentile e innocuo che va bene a tutti?

Il Collodi del Novecento

Non fraintendetemi: Rodari è stato il Collodi del Novecento (amava ripeterlo Cesare Zavattini che di fiaba se ne intendeva) e ce l’ha raccontato Pino Boero nei suoi lavori critici. Gianni Rodari è ormai un classico (glielo disse Tullio De Mauro nel 1974 e lui se lo scrisse su un biglietto attaccato alla giacca) e anche per questo oggi I Meridiani lo ospitano nel canone alto della letteratura (pure senza un’edizione critica che ancora manca delle sue opere). Ma questo non significa che piacesse a tutti né che volesse piacere a tutti (come del resto a tutti non era piaciuto neppure Pinocchio).

Ci vorrebbe un critico che lo prendesse sul serio, in negativo dico, e dicesse: è stato un classico, il Collodi del Novecento ma non mi convince. Perché detesto la rima, perché odio l’ironia, perché è stato fino alla fine comunista: pensate che ha dedicato la Grammatica della fantasia alla città di Reggio Emilia e nel 1974 ha chiamato suo “committente” il movimento operaio. Sarebbe un modo anche questo di prenderlo sul serio.

Del resto mica tutti si sperticano di lodi per Italo Calvino o per Giuseppe Ungaretti. Servirebbe un discorso “in negativo” serio anche su Rodari per farlo tornare a essere quello che è stato in tutta la sua vita: uno scrittore divisivo, radicale, militante. Un intellettuale insomma.

Prendiamo Il libro degli errori che esce nel 1964 per le edizioni Einaudi, nella premessa Rodari scrive: «Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo? Se si mettessero insieme le lagrime versate nei cinque continenti per colpa dell’ortografia, si otterrebbe una cascata da sfruttare per la produzione dell’energia elettrica».

Libri sovversivi

Non sono in tanti a pensarla così nel 1964 e non sono in tanti neppure oggi. Il libro degli errori non piace a tutti, non può piacere a tutti. Perché è un libro rivoluzionario e un autentico pugno nello stomaco per la scuola, preoccupata soltanto di correggere gli errori, come racconterà Tullio De Mauro qualche anno dopo. Rodari anticipa De Mauro e infatti il suo libro esce a un anno di distanza da quella Storia linguistica dell’Italia unita che viene definita nel 1963 un libro sovversivo. Parlare di lingua, addirittura di regole linguistiche è sovversivo, non a caso lo fa per primo Antonio Gramsci che dedica il Quaderno 29 alle Note per una introduzione allo studio della grammatica.

Il libro degli errori poi mette in ridicolo la tradizione del tema astratto. La filastrocca La mia mucca è una critica del comportamento scolastico così radicale e definitiva che dovrebbe essere volantinata davanti a tutte le scuole della Repubblica, ha scritto Giorgio Bini, e poi inviata per posta a spese dello stato a tutti gli insegnanti e a tutti i genitori e infine incisa nel bronzo sulla facciata del palazzaccio di viale Trastevere: il bambino costretto a fare il tema sulla mucca, animale che non conosce, lo svolge ricorrendo a tutti gli stereotipi che possono trovar posto in sedici versi. Il risultato è amaramente comico, come tanti risultati scolastici.

Del resto nel 1961 la rivista Il Caffè aveva salutato le Filastrocche in cielo e in terra come la «più seria tra le imprese letterarie compiute a mezzo di stampa nel decorso bimestre», luminoso esempio di antifascismo e aveva pubblicato a riprova Il dittatore: «Un punto piccoletto, superbo ed iracondo,/ “Dopo di me”, gridava, “verrà la fine del mondo”./ Le parole protestarono: “Ma che grilli ha pel capo?/ Si crede un Punto-e-basta, e non è che un Punto-e-a-capo”./ Tutto solo a mezza pagina lo piantarono in asso/ e il mondo continuò una riga più in basso».

L’attacco alla società autoritaria, alla scuola tradizionale, alla didattica della lingua è frontale. Rodari lo ribadisce nei corsivi e negli articoli su Paese sera e persino sul Corriere dei piccoli dove per anni, con la sua intelligente ironia, stigmatizza comportamenti e ragionamenti che reputa pericolosi e che ancora oggi aleggiano nel discorso sulla scuola. Prendiamo il grembiulino che in molti difendono perché nasconderebbe le differenze di classe: «Questo ragionamento non mi convince. La povertà va abolita, non nascosta. Bambini con le toppe nei pantaloni non ce ne dovrebbero essere più, ecco tutto.

Un altro maestro mi ha detto: “Il grembiulino aiuta la disciplina. Che cosa ne diresti di un esercito senza divisa, un soldato col maglione rosso, un caporale con il gilè a fiorellini?” Nemmeno questo ragionamento mi convince: la scuola non è una caserma». Prendiamo l’abitudine mai tramontata di nominare un controllore della classe mentre l’insegnante non c’è: «Io sono del parere che si debba essere leali sempre e con tutti, a qualsiasi costo. Anche a scuola, dunque, con gli insegnanti. Ma in cambio della lealtà si ha diritto alla fiducia. Se nominano un sorvegliante perché mi tenga d’occhio, vuol dire che non si fidano di me. Allora, siamo nemici? Se siamo nemici, fine anche della lealtà. Ve lo dico chiaro e tondo: oggi come oggi, se mi incaricassero di andare alla lavagna a “segnare i cattivi”, darei le dimissioni immediatamente, direi che non sono adatto, che non so scrivere».

Da storica poi, non posso mancare di notare come oggi con il Novecento ormai alle spalle e il Pci per tanti diventato oggetto misterioso pari agli ufo, si tenda a disegnare un Rodari eretico, eccezionale, inviso al suo stesso partito.

Critico ma mai eretico

Ma il suo partito, il Pci, non fu un monolite e Rodari ci rimase fino alla fine, critico ma mai eretico, come tanti altri uomini e donne che fecero una scelta in quel lungo dopoguerra dominato dalla divisione del mondo in due.

La mia speranza in una critica dura ma seria ovviamente tiene conto di una critica che seria non lo è affatto. Gira infatti la voce che Rodari, con la sua Grammatica della fantasia, abbia distrutto la lingua italiana, la cultura italiana, la scuola italiana. In principio fu Cesare Segre che il 28 febbraio 2011 dalla pagine del Corriere della Sera, recensendo il libro di Paola Mastrocola Togliamo il disturbo, scrisse che lo scrittore di Omegna trasformando «l’insegnamento in gioco» e l’aula scolastica «in palcoscenico o in laboratorio» dove «gli scolari, distolti dallo studio, mettevano allegramente in gara la loro pretesa inventività» avrebbe condannato l’Italia a un futuro buio, senza regole (grammaticali).

Ma l’oggetto della polemica cioè La grammatica della fantasia, e non La fantasia al potere o Fate la scuola come vi pare (tanto non vi bocciamo), riportava fin dal titolo la parolina magica: grammatica. Un corpus di regole nientepopòdimeno. Rodari l’anarchico era invece Rodari il legislatore che pure alla fantasia proponeva di dare delle regole. Per questo era stato antipatico a intellettuali come Goffredo Fofi che a più riprese nella vita l’hanno accusato di essere un chierico comunista che altro non voleva che indottrinare i bambini.

Falso pure questo, diciamolo: Rodari non avrebbe mai anteposto l’ideologia alla realtà viva e unica dell’infanzia. «All’educazione, in casa e a scuola, bisogna avere il coraggio di pensare senza guardarsi indietro, senza pretendere di vedere in avanti ma, per così dire, in presa diretta con i bambini e con la loro volontà di crescere».

Mi auguro che questo centenario dunque non chiuda ma apra la strada a studi seri e numerosi e polifonici su Gianni Rodari che sicuramente ancora a lungo resterà un intellettuale con cui dovremo confrontarci, con serietà e studio.

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