Arturo è agonizzante lì in via Foria, nel cuore di Napoli. È stato colpito da vari fendenti, sferrati con l’intenzione di uccidere. Due coltellate hanno raggiunto l’emitorace sinistro e la gola. È in fin di vita a soli diciassette anni. Prima è stato colpito alla nuca e poi immobilizzato, bloccato di spalle e infilzato come un budello senza anima, carne senza cuore, un manichino senza vita. Prima di lui la banda ha avvicinato un altro coetaneo, poi si sono fiondati su Arturo, mai visto prima.

È stato abbordato con la richiesta dell’ora, ha risposto estraendo il cellulare: «Sono le 17.21». Uno di loro replica: «T’e mai fatt ’na chiavat?». Hai mai scopato? Nessun nesso tra richiesta e risposta. «Fatela finita mi avete rotto», dice Arturo, e a quel punto uno di loro estrae il coltello: «I t’accir», urla. Poi la fuga tentata da parte di Arturo, interrotta dal branco. Il branco ora vaga attorno a quel capannello di persone.

Vagano per la città che è Napoli, ma potrebbe essere ovunque. Senza volto e senza nome, si disperdono confusi nella folla, e così rimarranno fino alle indagini e al successivo processo. A quel punto, e per tutti, saranno Gennaro, Francesco, Antonio e Ciro.

Gennaro

Indossa un cappuccio grigio, giubbino scuro e scarpe bianche Diadora, ma il dettaglio che lo rende riconoscibile è un altro: ha gli occhi azzurri come un cielo terso. Non è altro però che una quiete apparente. È lui ad aver urlato «I t’accir», ha inseguito Arturo, lo ha colpito forte alla nuca per stordirlo, poi ha fatto leva sul braccio destro prima di sfilare la lama. Ha sferrato coltellate per ammazzare, una, due, tre, poi non si contano più, inflitte con crudeltà e senza fermarsi neanche un momento. Ha sedici anni. Arturo ha sentito i fendenti sul lato sinistro del tronco. Infilzato da un coetaneo, di quelli con cui normalmente posi lo zaino e ti metti a correre dietro a una palla.

Gennaro ha alle spalle una condanna a due anni e due mesi per tentata rapina aggravata in concorso, pena sospesa. Lo stato di Genny se ne è fottuto e lui ha fatto altrettanto, ha fottuto il prossimo o almeno di questo si è convinto. Doveva andare a scuola, doveva frequentare un istituto, il “Casanova”, doveva avere il supporto di un assistente sociale. Doveva, ma poi i fondi, i soliti problemi, la solita Italia. E così Gennaro è tornato in strada. A scuola andava giusto per scattare selfie con Francesco mentre rollava canne al cesso o le adagiava in bocca fumandosele avidamente. Si crede perseguitato dalla legge, Gennaro, quella legge che considera al più un fastidio, un impiccio. La legge che abbaia, ma non morde, ti acciuffa e poi ti lascia. «A me m’hann sempre purtat perché teng duje ann ’e pena sospesa», racconta così Gennaro il suo rapporto con le guardie. M’hann sempre purtat si riferisce ai controlli casuali in strada ai quali era sottoposto dopo la condanna per rapina. Non va meglio in famiglia. Quando torna a casa non trova un riparo ma un’altra trincea. Il padre picchia, picchia forte e ogni volta senza motivo. A volte lui, a volte la madre. «È manesco», racconta Genny, «è sempre stato molto offensivo con mia madre e con me, chiedeva sempre soldi perché si doveva fumare lo spinello e scaricava su di me tutta la sua rabbia». Con gli inquirenti che lo interrogano aggiunge: «Mi sucutava [seguiva, n.d.r.] fino a sotto al letto picchiandomi spessissimo».

Sui social ci sono le sue foto, i video con cui si mostra al mondo. Accende uno spinello, urla: «Ma’ domani svegliami presto, verso le undici e mezza». E detta le sue regole di vita: «Io nun dic niente, nun facc ’a guardia». Io non parlo, non faccio il poliziotto. Eccola, l’omertà endemica, strisciante, che è sistemica e mai occasionale. Perché d’altra parte dall’altro sistema, quello ufficiale, lo Stato, Genny non si è sentito né affidato, né assistito, mai. E alla fine dalla tentata rapina al tentato omicidio il passo è breve, troppo breve.

Francesco

Francesco si fa chiamare Kekko, con la k chiaramente, ma tutti lo chiamano ’o Nano. Ha quindici anni. Certo è basso, piccoletto, minuto, ma a Napoli un appellativo, un soprannome rende bene l’idea solo se estremizza, solo se è brutale. Così Francesco è diventato ’o Nano, ma non la vive come un’offesa. Quella sera indossa un giubbotto scuro e uno scaldacollo di colore nero. Si muove baldanzoso, guida il gruppo come un domatore. Non colpisce ma induce, organizza, ordina. Senza che se ne accorga rimane immortalato dalle immagini delle telecamere. Basta fermare un istante per vederlo per com’è, un ragazzino sopraffatto dalla smania di fare ’o gruoss, lo sbruffone che si improvvisa criminale. Durante l’assalto ad Arturo, ’o Nano è il più eccentrico, qualcosa a metà tra protagonista e regista. È euforico, saltella, grida, corre, così racconta un testimone che assiste alle violenze. È entusiasta di fare “spalla a spalla” con quel ragazzo sconosciuto, di sottometterlo alla sua legge attraverso la squadra che controlla e fomenta. ’O Nano ha i capelli chiari, mingherlino, un fuscello, quasi insignificante rispetto al mondo, ma è presente a se stesso e sa dove vuole arrivare. D’altra parte è lui ad abbordare Arturo. Ma se prima gli sferra un calcio, poi si allontana, resta a un metro dall’aggressione, non accoltella ma fa accoltellare, osserva. Francesco è lì a controllare che tutto avvenga con celerità e senza dar troppo nell’occhio. All’improvviso dà l’ordine a tutti di scappare.

Antonio

Il giorno dell’agguato tra gli esecutori telecomandati da Kekko c’è un altro ragazzino, si chiama Antonio. Ha solo quattordici anni, ma volteggia attorno ad Arturo come un corvo. I colpi arrivano prima al braccio, poi al petto e, infine, la lama affonda sotto la gola di Arturo. Come a scannarlo. Così si cancella un ragazzo dalla faccia della terra, rischiando di chiudergli gli occhi per sempre. Di Antonio scriveranno gli inquirenti: «Si distingue per la particolare prodezza nell’accoltellare». Mentre Gennaro colpisce e tiene ferma la vittima c’era chi accoltellava di fronte. Antonio, a quattordici anni, fa già la malavita anche perché il determinismo sociale ha deciso la sua strada, lo ha predestinato. La sua famiglia è scomposta, frammentata. Ma c’è di più. È il dicembre 2003, la notte tra l’otto e il nove. La notte dell’Immacolata. Un ragazzo, Claudio Taglialatela, studente e aspirante sottufficiale dei Carabinieri, viene rapinato e ucciso in corso Umberto I, la via dello shopping a Napoli. Nel 2003 Antonio ha undici mesi, non ha ancora compiuto un anno. Claudio Taglialatela di anni invece ne ha ventidue quando la sua vita viene interrotta da un colpo di pistola alla testa. La sua macchina finisce contro un palo. A ucciderlo è il padre di Antonio, che finisce in carcere ma pochi giorni dopo afferra un lenzuolo, lo lega al tubo di scarico del cesso della cella e si ammazza piegando le gambe per penzolare nel vuoto. Era in isolamento. Il padre di Antonio era affiliato al clan Mazzarella, egemone a Forcella, ma dalle intercettazioni si capisce che dopo l’omicidio il clan lo abbandona. Il neonato Antonio resta senza padre.

Rimane a vivere con la madre ma andrà presto via anche lei, scegliendo la droga come compagna di vita prima di finire in carcere per rapina. Dopo la morte del padre, Antonio viene così abbandonato anche dalla madre. Resta a vivere con lo zio, pregiudicato anche lui. Antonio, sui social, celebra la figura del padre. Un fotomontaggio racconta il dolore e i fantasmi del giovane: «Mio padre mi disse attento a dove metti i piedi e io gli risposi, attento tu che io seguo i tuoi passi». A distanza di quattordici anni quel neonato diventato ragazzino infilerà il coltello nella gola di un innocente come parte di un destino maligno. Finisce arrestato per rapina e tentato omicidio, esattamente come papà. Alla fine ha seguito quei passi.

Ciro

La galleria degli aggressori ha bisogno di un ultimo personaggio che abbassa di colpo l’età. Si chiama Ciro. Non subirà alcuna conseguenza penale. Ha dodici anni, l’età della preadolescenza, come dicono gli esperti. Ma se è lì insieme alla banda, ai carnefici, più che preadolescenza è pubertà criminale.

E però Ciro ha un cognome che pesa e una parentela importante. «A chi appartiene?» si domanda in quelle zone, come a chiedere lo stigma, il marchio, l’origine. Ciro appartiene alla famiglia criminale dei Mauro, clan che primeggia tra i Miracoli e Sanità. «Solo in una zona comandano», racconta un bene informato, «stanno in alcune palazzine e si occupano di droga e racket». La camorra è considerata il potere supremo, interlocutore unico in assenza, per decenni, di istituzioni capaci di rappresentare e incarnare l’autorità, è anche l’unica autorizzata all’uso della forza. Ciro così è temuto perché appartiene al sistema, anche se ha solo dodici anni e il clan di famiglia, nello scacchiere criminale, è di second’ordine e di minore rango.

Il timore reverenziale emerge dalla mole di intercettazioni che raccontano il mondo, le stanze, i segreti delle famiglie dei carnefici. E Ciro tra i carnefici non si deve nominare. Quando Francesco viene arrestato gli inquirenti registrano i colloqui in carcere e quelli tra i familiari. Colloqui che abbiamo potuto leggere. La madre, Anna, parla con la sorella Maria: «No... solo... a mio figlio devono passare tanti guai! Avessero preso pure a quegli altri là, quegli altri quattro, va fa mocca! Dice uno... vabbe’, proprio assurdo». Francesco poi si rivolge a Patrizia, sua sorella, e affrontano il tema dei nomi. «Come si chiamano? Non mi dire i nomi di questi qua, dimmi il nome di quello là del Borgo [di Sant’Antonio] in mezzo...» Patrizia chiede i nomi, ma Francesco risponde: «No, non te li posso dire».

Patrizia: «Perché?»

Francesco: «Ma quando mai, io non glieli ho detti nemmeno all’avvocato... Ma che c’è mamma? Io se non faccio i nomi è per paura della famiglia mia, dopo loro non stanno bene e io sto male, diglielo Emanuele che ha detto...»

«Non fare i nomi», «se non li faccio è per paura della famiglia mia», l’amico sconosciuto che ferma la sorella in strada.

Sono episodi e frasi tipicamente all’insegna dell’omertà, ma impressiona come il mandato al silenzio segni la personalità in formazione di un minorenne. Come la plasmi. Totalmente.

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