Danny e Wendy Torrance non sono mai davvero tornati indietro dall’Overlook Hotel, l’albergo maledetto che sfoderò tutte le sue armi per ucciderli, prima nel capolavoro di Stephen King, pubblicato nel 1977, poi nell’intramontabile film di Stanley Kubrick, nelle sale nel 1980. Shining – luccicanza, o aura, a seconda delle traduzioni – ha, come l’Overlook, due anime: quella creata da King e quella creata da Kubrick.

Sulla prima pagina della mia prima edizione di Shining (tradotta da Adriana Dell’Orto) c’è scritto, a penna, Tony, e una data, quella in cui l’ho letto: 1993. Tony sono io, che negli anni ho cambiato spesso identità (ero Antonella, poi Tony, poi Toni). Dentro quell’edizione c’è ancora, intatta, la tredicenne Tony che si terrorizzava sulle pagine di Shining. Ricordo come fosse un trauma mio, della mia vita vera, il momento in cui ho scoperto che la scritta REDRUM, che Danny, il bambino di Shining, vede nella sua testa dall’inizio del romanzo, va letta al contrario, in uno specchio. E vuol dire MURDER: omicidio. Ricordo che ho chiuso il libro di colpo e ho detto: non ce la faccio, ho troppa paura. Un’incantevole, sensualissimo orrore mi paralizzava e attraeva. Ma forse, di quel libro che amavo, non avevo potuto cogliere tutto a tredici anni. Tutto quello che ci ho trovato da adulta, quando l’ho riletto.

La trama

Devo per forza fare un passo indietro e raccontare la trama di Shining per chi non l’abbia letto o visto. Jack Torrance è un uomo sul limitare del fallimento economico e umano. Come “ultima occasione” – espressione che ricorre spesso nel romanzo – accetta un lavoro di guardiano invernale presso l’Overlook Hotel, un anziano elegante albergo sulle Montagne Rocciose in Colorado. L’albergo, durante l’inverno, è completamente isolato dal ghiaccio e dalla neve. Se la sentono Jack, sua moglie Wendy, e il loro figlio Danny detto Doc, di chiudersi lì fino a primavera? Ce la faranno a rimanere isolati tutto quel tempo? Certo, assicura Jack con un sorriso. Lui deve farcela. Ha perso il lavoro, non sa come mandare avanti la famiglia, e vuole scrivere una commedia (un romanzo, nel film) da sempre. La calma e la quiete dell’Overlook sono proprio quello che ci vuole. Solo che nessuno gli ha detto che l’Overlook è infestato dai fantasmi (costruito sopra un cimitero indiano, nel film) e vuole uccidere i suoi tre inquilini come già ha fatto con la famiglia del precedente custode.

Il perturbante di Freud

Solo che – nel libro più che nel film – siamo proprio sicuri che quelli che vogliono uccidere la famiglia Torrance siano fantasmi? Si tratta di «fenomeni psichici reali o ipnosi collettiva?», si chiedono a turno i tre della famiglia. Il perturbante di Freud – cioè qualcosa di strano ma imprendibile in un contesto apparentemente normale –, tanto caro alla letteratura che con larga approssimazione potremmo chiamare horror – da Giro di vite di James ai libri di Shirley Jackson (maestra di King, citata nel romanzo) agli autori contemporanei – è alla base di tutti i romanzi di King – il clown di It esiste o è il Male che alberga in ognuno di noi? – e in particolare di Shining, sia nella sua versione letteraria che in quella cinematografica. Qualunque cosa il perturbante sia: primo, provoca terrore, secondo, uccide per davvero. «L’Overlook e le persone che vi hanno a che fare esistono» – scrive King nell’avvertenza di Shining, e poi va a capo, come dopo un’esitazione – «unicamente nella fantasia dell’autore».

Qualunque cosa sia – sanguinario ultraterreno o sanguinario umano – il perturbante non può che massacrare. Jack impazzisce. Tenta di sterminare moglie e figlio. Ma Danny lo uccide, perché ormai Jack è invasato dal male, e salva sé, sua madre e il cuoco Halloran, accorso in loro aiuto (nel film Halloran muore ma, in entrambi, ha un piccolo, determinante ruolo nella possibilità di salvezza di madre e figlio).

Un rapporto esclusivo

Nel film, Jack diventa distante da tutto e tutti dal primo momento in cui lui e la sua famiglia vengono lasciati soli nell’albergo, quindi nella primissima parte della pellicola; abbiamo giusto il tempo di un tenero abbraccio tra moglie e marito e di una carezza sulla testa del figlio, ma sono movimenti, come dire, che già stillano dolore. Nel libro questa famiglia si ama davvero. Questo padre si butterebbe nel fuoco per suo figlio, e il figlio per lui, tanto che Wendy si scopre a essere gelosa del loro rapporto esclusivo.

In questa famiglia, moglie e marito si amano davvero e con grande sensualità, fino a quando l’Overlook – contro il quale Jack combatte con tutte le sue forze, dibattendosi tra attrazione e repulsione verso le mortifere lusinghe dell’albergo fino all’ultimo – non ingoia Jack. Sul finale, Danny riesce ad ammazzare suo padre solo perché capisce che Jack non è più Jack: «Tu non sei mio padre» gli dice, mentre Jack sta per finirlo con una mazza da roque. «E se in te è rimasto almeno una briciola del mio papà, lui sa che loro», (gli abitanti dell’Overlook), «mentono. Qui ogni cosa è una bugia e un trucco. Come i regali che mettono in vetrina e che il mio papà dice che dentro non c’è niente. Tu sei una cosa, non il mio papà. Tu sei l’albergo».

I demoni di Jack

Nel film, Kubrick non ammette flashback: succede solo quello che succede ora. Nel romanzo si racconta a lungo il passato di Jack: con fatica e impegno, si è guadagnato un posto all’università. Ha pubblicato qualche racconto da cui ha ottenuto soldi e fama. Viveva apparentemente felice con la moglie e il figlio. Poi, l’alcol l’ha consumato. L’alcol, demone di King, l’ambizione, altro demone di King (Jack vuole fare lo scrittore a tutti i costi), il senso di responsabilità, altro demone di King (Jack dev’essere in grado di provvedere alla sua famiglia, altrimenti che uomo è?), l’amore che distrugge, altro demone di King (Jack e Danny sono legati da un rapporto esclusivo di amore totale, rapporto dentro il quale nemmeno Wendy può entrare), il desiderio di essere un eletto, qualunque significato si voglia dare a questa parola, altro demone di King, creano una miscela esplosiva.

Jack è convinto che l’Overlook voglia lui, perché lui è speciale. E ciò, anche se lo distrugge, lo lusinga. Ma sbaglia. L’albergo vuole prendere, attraverso lui, suo figlio. Dotato di uno shining, una luccicanza mai vista prima. L’Overlook usa la sua ambizione a essere speciale per tramutarlo nell’assassino della sua famiglia. Ma, nelle ultime pagine del libro, l’amore incredibile che lega Danny e suo padre sconfigge per un attimo le tenebre: «Il volto di fronte a lui mutò. Il corpo fu percorso da un lieve tremito; poi le mani insanguinate si aprirono come artigli spezzati. La mazza ne scivolò e cadde con fragore sul tappeto. Ma a un tratto, davanti a lui c’era il suo papà, e lo guardava col volto atteggiato a un’espressione di sofferenza mortale, e con una pena così profonda che il cuore di Danny se ne sentì come infiammato in un’espressione di commozione intenerita. “Doc,” disse Jack Torrance. “Scappa. Presto. E ricorda che ti ho voluto tanto bene”». E, prima che l’albergo lo ritrasformi in una cosa e lo ripiombi nelle tenebre, Jack rivolge l’arma contro di sé. Colpendosi quasi a morte per salvare Danny. Quasi, ho detto. Non muore, perché ormai l’Overlook è dentro Jack e non è così facile per lui riuscire a suicidarsi.

Un momento di dolore

Di lì a poco, comunque, in un’esplosione che distruggerà l’albergo, morirà. Ma non è questo il punto: il punto è questo momento incredibilmente vero, incredibilmente doloroso del romanzo – io leggo e rileggo e sento un dolore vero, uno squarcio reale dentro di me (è un romanzo o è la realtà? è la realtà) – per questo padre e questo figlio. Per mio padre e per me. Per chi amo e per me. L’ultimo scampolo di lucidità prima che la follia ci risucchi tutti (il terrore di impazzire, di passare il limite da cui non si torna più indietro, è un altro dei demoni di King, e anche il mio). L’ultimo barlume di sanità mentale che si concentra tutto in un ultraterreno sforzo d’amore. Ma ciò che viene dopo dimostra che nessuno può salvarci davvero. Che ci si salva soltanto da sé. Ed è un’altra cosa che mi ha sussurrato all’orecchio King, scrittore gigantesco.

Denigrato e osannato, amato e odiato, lo Shining di Kubrick è certamente un’opera diversa. Succede sempre così con King: da una parte ci sono i suoi libri, dall’altra ci sono i film tratti dai romanzi, alcuni riuscitissimi altri dimenticabili (per approfondire il confronto tra libri e film in King, consiglio la lettura di Stephen King – Dal libro allo schermo, volume appena pubblicato da minimum fax a cura di Giacomo Calzoni). Ostinatamente, per quarant’anni, il re dell’horror ha disconosciuto la pellicola tratta dal suo libro (l’ultima volta non molto tempo fa su Twitter). Mentre lavorava al film, Kubrick telefonava incessantemente a King, i due disquisivano di ultraterreno, fantasmi, aldilà, e non facevano che litigare.

Un vento gelido

Uno diceva di non credere in dio, l’altro rispondeva che alcuni credono nell’inferno. Uno creava un film terrorizzante in ogni immagine, ogni scena, ogni espressione del viso dei protagonisti, ogni nota della colonna sonora, ogni tonalità di colore. Un film freddo, è vero, come dice King, ma un freddo capace di gelarti le viscere e il cuore, un vento gelido che ti sussurra per tutto il film: sei solo, solo, solo al mondo, e lo sei da sempre e per sempre.

L’incapacità di comunicazione tra i personaggi, la mancanza di un grande atto d’amore, la continua repressione dei sentimenti non sono un appiattimento né una semplificazione: sono un’altra versione della storia, che però incide dentro di noi lo stesso immane, verissimo solco. Uno estirpava i sentimenti e la memoria, ma sapeva come dirli tutti in un silenzio o una simmetria nell’inquadratura. L’altro aveva scritto un libro caldissimo, che come dice King finisce nel fuoco (il film termina con Jack assiderato, ucciso da suo figlio per salvarsi, il libro finisce con l’esplosione dell’Overlook, che in qualche modo è comunque opera di Danny). Un libro in cui ogni volta che vuoi salvare chi ami, lo condanni al dolore.

King vs Kubrick, lettori vs spettatori. La prima volta che ho visto Shining sono rimasta atterrita e affascinata. L’ultima volta che l’ho visto, prima di scrivere questo articolo, in una casetta sul mare nell’ultimo scampolo di un’estate che chiamare strana è un eufemismo, mentre il rumore del mare rischiava di coprire le battute di Jack Nicholson (Jack), Shelley Duvall (Wendy) e Danny Lloyd (Danny) mi è scoppiato il cuore. C’è una forza indiscutibile nei colori violenti, nei cambi di scena che esplodono come coltellate, nelle scenografie perturbanti, nei volti fissi di Kubrick. C’è e ti entra nel cervello e nel cuore (è un film o è la realtà? è la realtà).

L’Overlook di King vuole divorare, attraverso Jack, Danny. L’Overlook di Kubrick vuole che Jack divori moglie e figlio, e poi si uccida. È stato scritto che l’Overlook in King non è un personaggio, e che in Kubrick lo è. Non sono d’accordo. Quelli di King e Kubrick sono due Overlook diversi, ma sono entrambi personaggi. E come gli inquilini di Rosemary’s Baby di Polanski – anche questo capolavoro, tratto da un libro (di Ira Levin) – i due Overlook ti spiano per tutto il tempo, sogghignano, e covano il Male. E il Male non lo puoi distruggere. Nemmeno se, come nel pre-finale del romanzo, incendi il luogo in cui si è insediato. Nemmeno se, come nel pre-finale del film, congeli a morte l’uomo in cui si è insediato.

Nel libro Danny, Wendy, Halloran e Jack non sono soli; lo diventano. Nel film di Kubrick, dalla primissima scena – quella meraviglia indimenticabile che è l’auto di Jack che si inerpica per infiniti tornanti fino ad arrivare al cospetto del mostro-albergo –, ogni personaggio è solo, sempre. Jack non ha nessun vero rapporto con suo figlio e con Wendy. Vorrebbe disperatamente amarli, ma il dolore, l’oscuro che cova dentro non glielo permettono. Nemmeno Wendy e Danny, che pure giocano con la neve, passeggiano, e la prima volta che li vediamo stanno facendo colazione insieme, sono mai davvero in contatto.

Ognuno si salva da solo, dice per tutto il tempo Kubrick. Se, si salva. Non c’entra se sei buono o cattivo. Si nasce senza possibilità di salvazione. E se l’Overlook di King, esplodendo, distrugge il male che è al suo interno (ma quel male dove andrà, visto che non può morire?) e mette fine per sempre alla storia del maledetto albergo, l’Overlook di Kubrick si staglia intonso, gigantesco, minaccioso, anche dopo l’ennesima tragedia che si è consumata al suo interno.

Sopravvive alle persone che ingoia nel suo stomaco terribile, e l’anno prossimo ci saranno ancora feste, clienti benestanti, scandali, sesso sfrenato, lusso. E ancora morti, cadaveri su cadaveri che si affastelleranno uno sull’altro ma non creperanno la smorfia soddisfatta, onnipotente, dell’Overlook Hotel.

Un segno indelebile

Danny e Wendy Torrance, ho detto all’inizio, non sono mai davvero usciti da quell’albergo. Perché dall’Overlook non si può uscire, ma anche perché Shelley Duvall e Danny Lloyd sono stati segnati a vita da quel film come ci fosse davvero una forza paranormale a contrastare il loro destino. Danny – enfant prodige capace di una prova attoriale incredibile – lascerà quasi subito il cinema. Shelley Duvall, la cui carriera era all’apice prima di Shining, ricorderà più volte lo shock delle riprese del film, il clima ossessivo creato da Kubrick intorno a lei perché il suo terrore apparisse sempre vero (chiedeva alla troupe di isolarla, la teneva all’oscuro di ciò che sarebbe successo nelle scene perché si spaventasse sul serio, le fece ripetere per 127 volte una scena cruciale, e la Duvall doveva essere in lacrime o terrorizzata e urlante per una buona metà del film). Il 7 luglio scorso è stato il suo settantunesimo compleanno, ma sono in pochi a sapere cos’ha fatto dopo Shining. La critica ha acclamato Nicholson e Kubrick, ma quella meravigliosa Wendy chi l’ha guardata? In un’intervista del 2016 da Dr. Phil, un programma tv americano, Duvall appare sformata, gonfia, disorientata. Dichiara di aver avuto gravi problemi psichici dopo Shining, di essere stata a lungo in cura, e di non essersi mai ripresa. Dice che la sua fine è cominciata lì, tra quelle scenografie inondate di sangue.

Chissà dove inizia la fine di ognuno di noi. Forse è impossibile dire dove cominci. Fatto sta che le invenzioni di Kubrick – assenti nel libro – come le due gemelle morte, figlie dell’ex custode dell’Overlook, che chiedono insistenti a Danny «vieni a giocare con noi?», o la cascata di sangue che ossessivamente irrompe dall’ascensore dell’Overlook, o il labirinto antistante l’albergo – il cui modellino, Jack, come un dio terribile e invincibile, guarda in una scena e dentro ci vede, piccoli piccoli, sua moglie e suo figlio camminare mano nella mano, già in trappola – o l’agghiacciante scena in cui Wendy scopre che Jack non ha mai scritto il suo romanzo nella sala Colorado dove nessuno deve disturbarlo, ma ha vergato per settimane e settimane centinaia di pagine con un’unica scritta («Il mattino ha l’oro in bocca» in italiano, «All work and no play makes Jack a dull boy» nell’originale) sono invenzioni di un genio.

La scena girata 127 volte è proprio quella in cui Wendy scopre la scritta e comincia ad arretrare lungo le scale dell’Overlook, spalle alle scale, faccia al marito che ormai non è più suo marito, terrorizzata, con una mazza da baseball in mano con cui tira fendenti senza forza per difendersi da lui. La scena dura un tempo infinito. E forse Duvall (che prima di Kubrick aveva lavorato a lungo con Altman – con Tre donne aveva vinto il Prix d’Interprétation féminine a Cannes, ma chi lo ricorda? – e Woody Allen) da quella scala non è mai scesa. Forse nessuno di noi è mai uscito dall’Overlook. Da nessun Overlook si esce mai.

Ieri sera, mentre passeggiavo per una strada buia di una cittadina sul mare, ho visto una porta diroccata, chiusa con un lucchetto. Ho acceso la torcia del telefono e ho cercato di guardare dentro, da uno spiraglio. E allora la me tredicenne che leggeva Shining per la prima volta, quella quindicenne che vedeva Shining per la prima volta, e la me adulta che ha riletto il libro e rivisto il film si sono incontrate in quel buio, oltre quella porta, oltre la stanza 217 (237 nel film) dove c’è l’orrore che ci abita.

Il carrozzone della normalità

Il carrozzone della normalità – come lo chiama King – in cui facciamo di tutto per salire e per rimanere, in modo da diventare persone buone e giuste e normali, non è, come credevi guardandolo dalla strada sporca e acquitrinosa dell’anormalità, il «più colorato, più pulito che tu abbia mai visto» ma nient’altro che un carrozzone squallido e orrorifico: «Una prigione per te».

C’è una speranza? L’arte non è fatta per rispondere a questa domanda. A nessuna domanda. L’arte è fatta per raccontare te. Quello che sai e non sai di te, quello che vuoi e non vuoi essere.

Kubrick e King non hanno mai avuto paura di farlo. Dai confini opposti dell’orrore – e forse della concezione dell’uomo – non fanno che dirci che c’è un’altra visione, un’altra versione della storia, della vita che crediamo di star vivendo. E quella versione – che solo i grandi riescono a farci intuire – se la sai vedere, se la vuoi vedere, quella versione, anche se sembra farti male, in realtà ti illumina. Irradia – come lo shining – su di te, in te, splendente. E, se hai il coraggio di guardarla, ti accompagna per tutta la vita.

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