Chiedono agli influencer da milioni di follower di non essere taggati, rapper e popstar comprano i loro abiti senza passare dagli stylist, organizzano vendite online di 15 minuti. Ci tengono a essere considerati una tribù più che un marchio d’abbigliamento. La settimana della moda di Milano sta per concludersi e noi abbiamo intervistato i fondatori di Sunnei.

Ho conosciuto Sunnei qualche anno fa, quando ho visto la popstar spagnola Rosalia indossare i loro orecchini. Quei due cerchi argentati affogati per metà nella vernice mi ricordavano i punk, riminiscenze da rave a Londra e vita spericolata. Per capire di chi fossero e come reperirli ho setacciato tutto il profilo Instagram della cantante da 22 milioni di follower ma non ho trovato nessun nome, riferimento o tag. Niente, zero. Sono risalita anche alla sua stylist, Samantha Burkhart, la stessa di Billie Heilish, ma a nulla era servito. Avrei scoperto molto tempo dopo che l’assenza di tag era una volontà, quel «se ti piace indossalo ma non taggarmi» della generazione z. Che loro non lo sanno – o forse sì – ma crea hype. Di certo con me aveva funzionato.

Ho trovato il nome che cercavo qualche settimana dopo per caso a New York. Una ragazza camminava per strada, nell’East Village, indossando solo un orecchino – la vernice era di un altro colore, ma il modello, avrei potuto scommetterci una mano, era lo stesso – e io l’ho fermata per farmi svelare quello che ritenevo fosse il segreto di Fatima. Non ero pazza, quegli orecchini sono diventati un cult e un paio d’anni dopo, nel 2020, li avrebbero indossati – e copiati – tutti. Ho scoperto così che il marchio Sunnei era italiano, nato nel 2012 da un’idea di Loris Messina, 34 anni, e Simone Rizzo, 35, ai tempi poco più che ventenni. Ero appena diventata una loro fan ma non sapevo a che cosa stavo andando incontro.

Acquisti online a tempo

Riconoscevo i loro pezzi in giro, li indossavano ragazzi sui 25 anni incrociati a un concerto o in metropolitana, a Los Angeles come Berlino, ma anche ai circoli Arci di Milano.

Una specie di tribù con un codice proprio di lingua e stile. Poi è arrivato il Covid e per la prima volta ho ricevuto un invito a fare acquisti online, un codice che mi dava l’accesso a uno sconto “for friends only”. L’eccitazione finì presto quando scoprii che quella password sarebbe durata solo 15 minuti. Con sadismo pretendevano che in quel lasso di tempo avrei dovuto scegliere, controllare taglie e colori, mettere tutto nel carrello e pagare.

Di certo qualcosa sarebbe andato storto, e infatti ho aggiunto una t-shirt sbagliata nel conto. O meglio. La t-shirt che non credevo di volere. Si chiama Roberta’s, c’è la foto di una ragazza dallo sguardo tra il malinconico e l’incazzato, sarebbe bella se ridesse ma lei non lo fa perché non vuole compiacere chi la guarda, non è un valore che le interessa. Sono arrivata a pensare che quella foto sia un manifesto Sunnei. E di tutta la sua tribù.

Ogni volta che la indosso c’è sempre qualcuno che mi chiede chi sia. L’altra sera, alla festa di compleanno di Mahmood, in un locale underground dentro la Stazione Centrale, la pierre all’entrata l’ha addirittura riconosciuta: «Che cosa ci fai con Roberta sulla maglietta? Sai che ora fa la barista al Palinuro?».

Loris e Simone

Incontro i fondatori di Sunnei, Loris e Simone, nel loro quartier generale, una palazzina nel quartiere liberty dietro Piazza Tricolore, a Milano. Nel dehor c’è un ping pong e al primo piano, vicino all’entrata, la zona cucina che si affaccia su un giardino con tavolo e sedie. A ogni piano ci sono uffici open space. Si sente anche musica che arriva da qualche parte.

Le palazzine in cui lavora il team, una cinquantina di persone, per la verità sono due; una adibita al prodotto, in cui passa più tempo Loris, e l’altra, questa, adibita allo showroom e alle vendite, più frequentata da Simone. Sono cento gli store nel mondo, i mercati più forti sono Corea, Cina e Stati Uniti. L’Italia è solo quarta.

«Con i buyer vogliamo che ci si incroci per interessi, stili di vita, background culturale», dice Simone. «Sunnei è un progetto legato all’arte, alla cultura e alle sperimentazioni. Siamo stati il primo brand iperdigitale, dieci anni fa eravamo sui marketplace più importanti. Non è solo vestiti. Il resto è arrivato col tempo». E per il resto intende progetti di riqualificazione urbana, produzione di musica, una radio, feste, design, collaborazioni che scelgono con attenzione. Un club esclusivo, che chiamano tra loro Club Sunnei. «La moda è stata un’ossessione, ma solo un punto di partenza».

Simone è la voce del marchio, non ha incertezze. Loris osserva. E pensa. Chissà cosa, mi chiedo mentre lo guardo dal divano. Parla solo all’occorrenza. Si sono incontrati a New York dieci anni fa e subito hanno creduto nella loro visione. «Simone rischia. Senza di lui non sarei mai partito col progetto», dice Loris. «Io però non ho la sua sensibilità artistica e riflessiva», aggiunge Simone.

Chi sceglie i progetti?

S. Entrambi. Un esempio è stato lo spazio di quattromila metri quadri che abbiamo riqualificato a Rubattino, nella periferia Nord Est di Milano. È stata un’idea di Loris ma quando l’ho visto ho detto: «Wow. Dipingiamolo tutto di bianco». E così è nato Bianco Sunnei. Lì abbiamo sfilato, fatto istallazioni, performance, eventi. Un po’ di follia è necessaria.

Una follia protetta dal fondo Vanguard, entrato in società.

S. Solo da un anno. E il loro supporto non è arrivato per caso.

Com’è la convivenza?

S. Ottima. Il ceo, Peter Baldaszti ci ha capito e si è fidato. Insieme abbiamo costruito il business plan.

E cos’è cambiato?

L. Prima se avevamo un’idea, l’organizzazione partiva subito. Per certi aspetti eravamo dei punkabbestia. Oggi ci siamo dati regole che anche quando non ci va di seguirle, le seguiamo lo stesso.

S. Vogliamo costruire un modello Sunnei. Un format. L’azienda giusta per noi. Ci sono tante case history ma non fittano col nostro modo di fare.

Non vi hanno circondato di manager?

L. No. Peter ci ha capiti perché anche lui è partito da zero ed è arrivato a fatturare milioni di euro. Sapeva che i fondatori dovevano essere presenti nell’organizzazione dell’azienda.

S. Abbiamo detto: “È inutile che prendiate qualcuno che arriva da Prada e simili, non faranno meglio di noi. Se scegliete chi non può capirci, non funzionerà”.

Che cosa non capiscono gli altri brand di moda?

S. Tutto (ridono, ndr).

Indistintamente?

S. Ci irrita la strumentalizzazione e i codici sociopolitici sulle magliette. Siccome non ci piace la stupidità, questo ci dà fastidio.

La trovate ipocrita?

Odiamo il politically correct forzato, che invece nasconde il marcio vero. Noi conosciamo i trend esistenti, ma non ci interessano. Creiamo i nostri.

Un esempio di cosa vi infastidisce?

Da sempre facciamo sfilare modelli di tutte le culture e tipologie fisiche. Ma non abbiamo mai avuto il bisogno di sottolinearlo definendola “inclusivity”. È roba vecchia. Come gli abiti pensati indistintamente per uomini e donne. Per noi non è un tema. Alla prima sfilata avevamo una modella transessuale senza bisogno di comunicarlo.

Avete rifiutato gli aiuti dalle istituzioni.

S. È capitato che ci invitassero a cene ufficiali a cui non ci presentavamo. Se c’è un premio che riteniamo stupido, non andiamo a ritirarlo. Non ci interessa fare parte del sistema, la casta della moda non fa per noi.

L. Abbiamo fatto tutto questo perché volevamo spaccare con un’azienda e un team. Non volevamo entrare in un sistema e fare parte di qualcosa già esistente.

S. Non siamo due designer, ma imprenditori creativi. Artisti. Per noi l’obiettivo non era creare un marchio per diventare famosi ma creare un movimento e poi un business.

L. La palazzina è il nostro mondo, ciò che facciamo combacia con ciò che vogliamo essere.

È vero che avete fatto chiamare il pierre di Chiara Ferragni per assicurarvi che non taggasse i vostri orecchini? O ho capito male?

Se Chiara Ferragni vuole i nostri orecchini, noi siamo felici che li apprezzi e li indossi. Ma non che li tagghi. Non vogliamo che si crei un obbligo, un ritorno. Ti diamo una cosa perché ci piaci: indossala, goditela, mettila a cena. Va bene così.

Ecco perché non vi trovavo. Avete chiesto la stessa cosa a Rosalia.

S. Lei li aveva comprati, non sapevamo li avesse. Abbiamo scoperto che faceva gli ordini online.

E l’idea delle svendite a tempo?

L. Un approccio per rompere gli schemi.

Il rapper americano Tyler The Creator, la producer Arca e anche Kylie Jenner indossano i vostri abiti. Giuratemi che non siete stati voi a mandarglieli.

Giuriamo. Tyler The Creator era di passaggio a Milano e ci ha scritto su Instagram. È arrivato col bodyguard nel negozio di via Vela, una via piccola dove non passa nessuno. Stessa cosa per Kylie Jenner. Arca compra online. Gli scriviamo per collaborare e non rispondono, poi ci comprano.

Per questa settimana della moda avete deciso di sfilare e poi fare una festa.

La sfilata è sempre più un momento sospeso fuori dal tempo, solo per addetti ai lavori, per chi compra, per chi scrive. Lo show nasce da un’idea che ci è venuta mesi fa, nello stesso istante e ce lo siamo confidati. La festa però è fondamentale. Vieni, balli e bevi. E non è per fare le fotine. C’è una line up di musica incredibile. Il consiglio che do è di lasciare fuori il telefono.

E non taggateli.

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