Io sono l’uomo che vive due volte. Mi chiamo Pierdante Piccioni, ma all’ospedale dove lavoro mi chiamano tutti Doc, come il medico della fiction che mi interpreta. Eppure, nella prima vita, quella che non ricordo più, non ero così. Facevo il primario, avevo una faccia severa e mi dicevano tutti che ero un «Principe bastardo»: era questo il mio soprannome.

Adesso tutti mi guardano con incredulità. Non riescono a capire tutto questo trambusto, il successo della fiction, i giornalisti che mi cercano e quelli che mi vogliono intervistare dalla Spagna o dall’Inghilterra, le televisioni, i libri, le chiacchierate con Luca Argentero. Ora mi chiamano papà. Ma io non mi fido. Il tempo cambia tutto. Però nella mia vita non è il tempo che mi ha cambiato o ha cambiato le cose attorno a me. Il tempo io l’ho perso.

Forse sto semplicemente facendo un’altra vita. Dodici anni non sono un segmento, ma uno spazio, un’esistenza. Per questo vivo due volte. Non c’è continuità, e neanche separazione. C’è lontananza. Io rido e scherzo, ma ci soffro ancora.

Ogni tanto quando guardo Luca Argentero che interpreta me stesso, mi commuovo e piango di nascosto, perché quell’estraneità è vera, io l’ho vissuta, so cosa vuol dire essere ridotto a un questuante che chiede solo di riavere indietro quello che era e quello che è suo, il lavoro e l’amore che gli spettano. Ma è ancora tuo ciò che appartiene a un’altra vita? Io sono stato costretto a volere cose che non erano più mie.

Quando mi risvegliai dal coma dopo l’incidente, chiesi di rivedere i miei figli. Ma quelli che si presentarono davanti al letto in quella stanza d’ospedale non erano i miei bambini di 8 e 11 anni, che giocavano ancora con i lego e avevano paura dei tuoni. Erano due marcantoni con la barba, le spalle larghe e la strafottenza che hanno i ragazzi di vent’anni.

Provavo quasi antipatia, voi non potete immaginare che trauma sia risvegliarsi senza dodici anni di vita, essere catapultati indietro nel tempo, che è solo tuo, mentre il tempo di tutti è andato avanti, è diventato un’altra cosa. Volevo rivedere i miei bambini, non loro. Per riprendere il rapporto con i miei figli ho avuto bisogno di uno psicologo. Ma soprattutto ho avuto bisogno di me stesso.

Il buco nero

Ho dovuto cercarmi in quei 12 anni che non esistevano più, e andare avanti senza di loro, senza una parte di me. Alla ricerca del mio tempo perduto, feci anche cose all’apparenza insensate, come andare ogni mattina davanti alla vecchia scuola dei miei figli, con la speranza non certo di rivederli bambini, cosa ormai impossibile, ma di risvegliare tutto ciò che era stato inghiottito dal buco nero della memoria.

Era una specie di omaggio al concetto di anamnesi di Platone, secondo il quale percepire ciò che abbiamo intorno, anche le cose nuove, non è altro che ricordare, ridestare quanto già abbiamo nella nostra anima. Un principio filosofico e poetico, non certo scientifico, ma in quel momento era tutto ciò che avevo per consolarmi.

Ero su una barella, ricordo le luci del pronto soccorso che mi colpivano gli occhi, non riuscivo a capire cosa fosse successo, ma dentro di me pensavo che mi ero solo risvegliato un giorno dopo l’incidente in macchina. Mi chiesero che giorno era e io dissi: «Oggi è il 25 ottobre 2001, è il compleanno di mio figlio e non capisco bene cosa ci faccio qui, perché continuate a dirmi che siamo nel 2013?». Ero impaurito, terrorizzato.

A causa di una lesione cerebrale, dodici anni della mia vita sono stati inghiottiti in un buco nero. All’improvviso son diventato un alieno, incapace di riconoscere la mia vita e addirittura me stesso in quel volto invecchiato che mi restituisce lo specchio. Attorno a me tutto è cambiato: la moglie sembra un’altra donna, con le rughe e i capelli ingrigiti.

Come potrò riprendermi la mia vita? Come nel film Good bye Lenin! ricordo la lira e c’è l’euro, Berlusconi calvo, ora ha i capelli, e poi le mail, i cellulari, i social. Non mi oriento. Il giorno dopo mi hanno portato un quotidiano del 2013 e ho letto il titolo: «Grave il primario del pronto soccorso di Lodi». C’era il mio nome. Allora mi sono reso conto del tempo sfasato e ho pianto. Ho dovuto ripartire da lì, da questa sconfitta e da questo incubo.

Sono riuscito a trasformare la rabbia in risorsa e a capire l’importanza di comunicare, di parlare con gli altri. Ho imparato ad ascoltare, ma anche a stare zitto. Adesso per me contano più le emozioni dei risultati. Ho passato le fatiche di Ercole per tornare a fare il medico, mi sono rimesso a studiare, ho superato test ed esami. Ho dovuto ristudiare giorno e notte pratiche mediche che insegnavo all’Università.

Ma non sono più quello di prima. Essere stato un paziente ed esserlo ancora, perché ormai lo sarò per tutta la vita che mi resta, ha cambiato completamente il mio modo di intendere la professione. Sono un medico empatico, ascolto i miei pazienti e sento quello di cui hanno bisogno.

In prima linea

Anche col Covid, io sono stato in prima linea, a Codogno e Lodi, e ho continuato a fare questo. Fuori dall’ospedale ho anche curato dieci malati di Coronavirus seguendoli tutte le sere in videochiamata a casa loro. L’ho fatto perché me l’hanno chiesto. Prima, era assolutamente impensabile. Prima, decidevo solo io. Come diceva Argentero all’inizio di Doc: «Il medico sono io e tu fai quello che ti dico».

Invece, ora penso che ascoltare sia fondamentale. Non curiamo i referti, non curiamo le Tac, ma curiamo le persone. Io è a questo che tengo, anche nella fiction. Luca devo dire che si è immedesimato bene nella parte e ha capito perfettamente le due cose che a me interessavano più di tutte: lo spaesamento di un disabile che ha un buco nero nella memoria di dodici anni, e cosa significhi per un medico diventare paziente e combattere per tornare alla normalità. Perché questa è tutta la mia verità.

Adesso mi chiamano tutti, mi cercano le televisioni, la fiction sta avendo un successo incredibile, l’hanno venduta in Spagna, in Francia, Inghilterra e persino in India, la Sony vuole farne una sua versione tratta dal libro che ho scritto con Pierangelo Sapegno per l’America, e anche in Portogallo sta facendo i record di ascolti come da noi. Ma io resto quello che sono. Uno sconfitto.

Anche se quello che mi sta capitando mi ricorda tanto Gelindo Bordin, il maratoneta, perché quello ancora mi è rimasto nella memoria, 1988, Olimpiadi di Seul, e lui era quinto da solo a pochi chilometri dalla fine, e il telecronista commentava che già quello era un successo straordinario, e poi Bordin si avvicina e supera il quarto e poi va avanti e acchiappa il terzo, «un re degli altipiani», e il telecronista non crede ai suoi occhi, «è impossibile, in mezzo a tutti questi giganti!», e invece supera pure il secondo e lui continua, con la bocca aperta, il viso stravolto dallo sforzo e alla fine passa anche il primo e entra da solo nello stadio, e forse a qualcuno sarà venuta qualche lacrima, come a me, perché la fatica quando trionfa è sempre commovente.

Dopo che ha tagliato il traguardo, gli mettono addosso una bandiera tricolore che gli scivola sulla spalla e lui dice poche parole con il respiro a singhiozzo: «Dedico la vittoria a tutti quelli come me, ai più deboli, a quelli che soffrono, a quelli che non ce la fanno mai ma non mollano, ai malati, ai perdenti. Perché bisogna crederci sempre, anche quando pare impossibile».

Anch’io non ho mai mollato. Lo so che non tornerò più quello di prima, che non riavrò indietro la mia vita, le gioie che ho vissuto e anche i dolori, lo so che non potrò mai capire perché sono diventato quello che sono. Ma non mollo. Con Pierangelo Sapegno continuo a scrivere libri.

È un modo per buttare fuori la mia sofferenza. Abbiamo scritto Pronto Soccorso, che è un seguito di Meno Dodici, editi da Mondadori. E ora abbiamo scritto Colpevole d’amnesia, un giallo che viene dai miei incubi, e che è appena uscito ed è già stato opzionato da Lux Vide per farne un film. Filippo e Tommaso, i miei figli, non mi chiamano più Savio. Mi dicono papà. E anch’io ho cominciato a riconoscerli. Ma resto un perdente, resto quello che sono. Gliel’ho detto a Luca. Io sono un perdente di successo.

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