Si parla molto, dopo le tragiche morti di anziani nelle Rsa della scorsa primavera, della necessità di cambiare un modello residenziale di assistenza che spesso riduce al minimo la qualità della vita degli anziani. Nel 2030 gli anziani nel mondo saranno 2 miliardi. In Italia, negli ultimi 40 anni, gli over 65 sono più che raddoppiati. La complessiva popolazione italiana è aumentata del 20 per cento, quella anziana del 155 per cento. Paradossalmente, più la popolazione aumenta più cresce la solitudine: le famiglie anziane unipersonali sono oltre 3,5 milioni.

Ancora quasi assenti sono in Italia modelli residenziali intermedi con servizi adeguati al di fuori delle strutture, dove l’obiettivo sia promuovere l’invecchiamento attivo e l’inclusione sociale e non la contenzione. La necessità di trovare nuove soluzioni a questa contraddizione fra sicurezza e libertà che caratterizza l’assistenza ai più fragili è un tema dominante per gli anziani.

Per costruire questa alternativa occorre implementare politiche innovative e sperimentazioni nell’ambito del welfare di comunità, sviluppando soluzioni intermedie tra il domicilio e la Rsa, e forme di “abitare protetto” in un contesto non istituzionale e più simile alla casa. Attualmente ogni famiglia affronta per la retta in Rsa circa 2.500 euro al mese, che raddoppia con i contributi pubblici versati alle residenze. Viene da chiedersi se questo capitale possa venir amministrato in un modo più efficace per la qualità della vita degli anziani e per il servizio medico e infermieristico, lasciando il ricovero nelle strutture solo come ultima spiaggia per chi non riesce più a essere gestito in altro modo.

Gli esperimenti italiani

Anche in Italia si stanno sviluppando progetti sperimentali, come appartamenti o mini alloggi protetti, case famiglia, comunità alloggio, housing sociale, co-housing. Alcuni enti pubblici, privati, associazioni, hanno attivato qualche episodica, ma ottima esperienza di abitazioni protette e di co-housing tra persone anziane o all’interno di comunità allargate, con giovani famiglie o giovani soli, che condividono spazi comuni mantenendo propri spazi privati.

Sono organizzati con un “piano dei servizi” che aiuti gli abitanti ad autogestirsi con badanti, pulizia, medici e infermieri quando necessari e anche attività culturali e di socialità. Il co-housing è un’iniziativa dal basso che si forma da un gruppo che si auto organizza, trova l’alloggio, stabilisce le regole, lo mette a posto, e lo abita. Da uno studio negli Stati Uniti le persone che vivono in contesti di co-housing rimangono autosufficienti per una media di 10 anni in più rispetto a quelli che vivono da soli. Questo modello favorisce la riduzione dell’ospedalizzazione degli anziani, che possono essere accuditi nella propria casa, con riduzioni significative dei costi.

L’housing sociale è pensato come intervento sul territorio e viene attivato da fondi europei. In Italia la “Fondazione Housing Sociale” si occupa di questo. Si stimola un mutuo fare collaborativo fra abitanti che ricostruisca quelle reti di vicinato che sono andate perdute. Queste riflessioni sono il punto di partenza di un lavoro appena iniziato da Felicita – Associazione per i diritti nelle Rsa – nell’ambito di una commissione che sta studiando gli esempi esistenti in Italia e in altri paesi con l’obiettivo di ragionare sulle soluzioni possibili (lo stato potrebbe facilitare, sburocratizzare e contribuire) anche con più interventi pubblici di housing sociale. Forse con la pandemia è arrivato il momento di smontare le grandi Rsa e di pensare a nuovi modi di abitare in vecchiaia: più intelligenti, più economici, con una più alta qualità di vita.

 

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