Il Trattato di Lisbona è stato firmato oltre quattordici anni fa dopo il fallimento di quello che fu chiamato impropriamente “trattato costituzionale”, respinto da francesi e olandesi, ma definito più correttamente da Giuliano Amato un “ermafrodito” a metà strada fra un sistema confederale, in cui prevale il principio secondo cui gli Stati e cioè i governi sono i padroni dei trattati e dell’attribuzione all’Unione europea dagli Stati di limitate competenze, e il metodo comunitario che ha permesso la realizzazione del mercato e di alcune politiche dell’economia reale dai trattati di Roma in poi.

I passi indietro

Rispetto al modesto “trattato-costituzionale”, ben lontano dal progetto Altiero Spinelli del 1984, il Trattato di Lisbona ha fatto compiere all’Unione europea addirittura alcuni significativi passi indietro rafforzando il ruolo dei capi di stato o di governo nel Consiglio europeo, lasciando la politica estera e di sicurezza nell’area dei poteri degli Stati-nazione e confermando il voto all’unanimità e cioè il diritto di veto nelle materie che avrebbero richiesto un ruolo più forte della dimensione sovranazionale come la politica fiscale o la difesa o il rispetto dello stato di diritto.

Negli oltre quattordici anni dalla firma del trattato di Lisbona l’Europa e il pianeta sono stati scossi da una serie di terremoti che hanno messo in discussione la capacità di reazione del sistema europeo e l’organizzazione multilaterale del sistema internazionale: crisi economica, terrorismo internazionale, primavere arabe e successivi inverni di nuove autocrazie, disastri ambientali, flussi migratori incontrollati, trumpismo diffuso, pandemia e infine aggressione della Russia all’Ucraina.

L’allargamento

L’allargamento dell’Unione europea ai paesi dell’Europa centrale e orientale a partire dal 2005 e cioè sedici anni dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica è stato effettuato dai governi europei ignorando l’allarme lanciato da Jacques Delors sui rischi di diluire l’integrazione europea nata per superare le sovranità nazionali e la proposta avanzata da François Mitterrand a Praga nel 1989 di un’Europa a due cerchi con un’ampia confederazione come spazio economico ed una federazione “fra quelli che lo vorranno” come spazio politico.

L’Unione europea e gli Stati membri non hanno colto le occasioni offerte dai negoziati per i trattati di Maastricht, di Amsterdam e di Nizza insieme a quella della Convenzione chiamata a scrivere una “costituzione per l’Europa” per affiancare o meglio far precedere l’allargamento dall’approfondimento spiegando a chi bussava alle porte della casa europea che l’obiettivo principale dell’integrazione era che la garanzia della prosperità e della sicurezza di tutti poteva essere raggiunta solo nel quadro di una sovranità condivisa e non dal confronto fra ventotto ed ora ventisette sovranità nazionali.

Con la sola eccezione della lotta alla pandemia dopo una fase di disarmanti incertezze, l’Unione europea ha reagito a tutte le altre sfide del ventunesimo secolo in ordine sparso e l’aumento dei problemi è andato di pari passo con l’aumento della difesa di apparenti interessi nazionali.

La prospettiva dell’ulteriore allargamento dell’attuale Unione europea da ventisette fino a trentasei paesi membri con la futura adesione di Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo ed ora Ucraina, Georgia e Moldavia lasciando per ora in sospeso la candidatura della Turchia riapre la questione dei rischi di diluizione del processo di integrazione politica sollevato da Jacques Delors e rilancia il tema dell’Europa a due velocità o dell’integrazione differenziata di cui parlò François Mitterrand a Praga.

La Confederazione

All’idea della Confederazione e cioè di un’Unione confederale allargata ai paesi candidati e/o candidabili che ci è stata ricordata in questi giorni prima da Enrico Letta e poi da Piero Fassino bisogna accompagnare subito una forte iniziativa che metta al centro l’obiettivo del superamento dei nazionalismi/sovranismi per creare un sistema costituzionale fondato sui principi della democrazia, dello stato di diritto e dell’autonomia strategica all’interno di uno spazio politicamente integrato.

Per raggiungere quest’obiettivo la strada di un nuovo negoziato intergovernativo è impervia e rischia solo di esaltare la contrapposizione fra apparenti interessi nazionali con un compromesso finale su un inefficace minimo comun denominatore.

La proposta

Per evitare l’effetto della diluizione e in definitiva dell’impotenza dell’Unione europea di fronte alle sfide del ventunesimo secolo, il Movimento europeo ritiene che la definizione di un sistema costituzionale europeo debba essere affidata – dopo un ampio dibattito pubblico che coinvolga parlamenti nazionali e poteri locali, forze politiche, società civile e partner sociali - alla capacità di sintesi democratica del parlamento europeo a nome delle cittadine e dei cittadini che lo eleggeranno nella primavera del 2024 e che questa sintesi venga sottoposta infine al giudizio dei popoli europei in un referendum paneuropeo che avvenga contemporaneamente in tutti i paesi membri dell’Unione europea.

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