Come cambia il fronte alimentare tra Stati Uniti e Ue dopo l’elezione di Joe Biden? E cosa può accadere nei prossimi mesi in termini di scambi doganali, dazi, sicurezza? Gli Stati Uniti sono il primo mercato di sbocco fuori dall’Unione per il cibo made in Italy, con un fatturato annuale che sfiora i cinque miliardi di euro e un ulteriore aumento del 2,8 per cento nei primi nove mesi del 2020. In particolare siamo i primi fornitori di vini sul mercato statunitense. Nel complesso le esportazioni italiane si attestano attorno a 45,5 miliardi.
Da ottobre 2019 nel quadro del contenzioso sugli aiuti pubblici ai gruppi Airbus e Boeing, sono in vigore dazi aggiuntivi Usa su alcuni prodotti agroalimentari esportati dalla Ue, poi rinnovati nel 2020. Per l’Italia i dazi aggiuntivi, pari al 25 per cento del valore, colpiscono formaggi, tra cui Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Asiago, Fontina, Provolone, agrumi, salumi, molluschi e liquori come amari e limoncello per un controvalore di circa 500 milioni di euro.
Il vino italiano è stato salvato dai dazi americani che invece hanno colpito la Francia che è il nostro principale concorrente su quel mercato. Fino ad agosto 2020, infatti, l’export del vino francese tra i dazi Usa, la Brexit e la pandemia ha fatto registrare una perdita di 970 milioni di euro. Nel periodo novembre 2019 – marzo 2020 si evince un calo del 24 per cento a valori e del 14 per cento a volumi dell’export di vini fermi francesi diretti verso l’America. Il colpo inferto a questo mercato ha costretto i produttori transalpini a ridurre il prezzo di vendita e le quantità esportate.
Gli Stati Uniti sono il maggior consumatore mondiale di vino e l’Italia è il loro primo fornitore con gli americani che apprezzano molti nostri prodotti tra cui il Prosecco, il Pinot grigio, il Lambrusco e il Chianti che a differenza dei vini francesi sono scampati alla prima black list stilata a ottobre 2019.
Nella lunga escalation della guerra dei dazi le ultime scintille sono state accese con le tariffe aggiuntive europee entrate in vigore il 10 novembre scorso sui prodotti Usa, tariffe del 15 per cento per gli aerei che salgono al 25 per cento su ketchup, formaggio cheddar, noccioline, cotone e patate americane insieme a trattori, consolle e videogiochi. Una misura autorizzata dal Wto dopo i dazi introdotti da Donald Trump.
Il nuovo mondo
La speranza è che l’arrivo del presidente Biden alla Casa Bianca possa determinare una inversione e un percorso di distensione nella guerra dei dazi, con benefici economici per il settore agroalimentare nostrano. Sarà necessaria un’attività di mediazione costruttiva tesa a evitare lo scontro potenzialmente distruttivo tanto per l’economia quanto per le relazioni diplomatiche e internazionali tra gli stati, considerata soprattutto la delicatezza di questa fase storica segnata dall’emergenza sanitaria.
Non a caso già all’insediamento si è assistito a un immediato cambio di rotta della politica internazionale divisiva e indipendentista di Trump, marcandone la profonda differenza sull’accordo di Parigi, sull’Oms, sui rapporti con i paesi a maggioranza musulmana e con il Messico. Per l’Italia quindi, questo cambiamento potrebbe significare un rilancio del food su un mercato importante in un momento difficile per la nostra economia. Tale cambiamento che in prospettiva porterà a un ritorno al periodo pre-trumpiano di una politica anche multilaterale collaborativa e aperta, non sarà immediato ma lento e senza cancellazioni istantanee di tutto quanto fatto negli ultimi quattro anni. Infatti rimane difficile credere che la nuova amministrazione abbandoni nel breve le posizioni protezionistiche fin qui assunte, non foss’altro per evitare effetti economici recessivi in aggiunta a quelli conseguenti alla pandemia.
Tra le altre cose, Biden sembra voler attuare politiche commerciali a favore di agricoltori, allevatori e pescatori Usa che, come da lui stesso sottolineato, «hanno pagato un prezzo pesante per le politiche di Trump».
Non a caso nella seconda settimana di presidenza, il nuovo inquilino della Casa Bianca è intervenuto sul Buy American Act, avviando un ingente piano di acquisti federali di beni nazionali, e ha annunciato interventi anche sul settore petrolifero e sul 30-30, la protezione di almeno il 30 per cento dei vastissimi terreni e bacini acquiferi federali entro il 2030 che ne comporterà la destinazione ad attività multifunzionali e, quindi, anche ad agricolture di qualità, con ricadute dirette sugli spazi commerciali e di mercato.
Per cui, prima che il made in Italy festeggi la nuova amministrazione immaginando un rilancio nel breve degli scambi commerciali agroalimentari, meglio attendere di capire meglio contenuti, profili e ricadute applicative delle nuove politiche americane. Con lo sguardo puntato anche sul programma democratico “Made All in America” che riaprirà alla firma di nuovi accordi commerciali solo dopo il recupero dei livelli di occupazione e dell’economia interna.
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