«Sei molto brava e hai ottima esperienza, ti proponiamo uno stage: se va tutto bene lo rinnoviamo e poi si vede». Questa frase, ormai diventata familiare per la nostra generazione, ha fatto partire tutto. Era stata detta a una ragazza che alle spalle aveva due titoli di studio ottenuti a pieni voti e già tre stage. Com’è possibile che dopo cinque anni di corsi universitari e tre tirocini “formativi” lei fosse considerata ancora da formare prima di poter entrare nel mondo del lavoro?

Uno sfruttamento organizzato

La verità è che di formativo in quello stage che offrivano, a lei come a centinaia di migliaia di giovani ogni anno, c’è poco. Quella posizione era un vero e proprio ruolo da dipendente, camuffato da tirocinio: quel posto prima di lei era occupato da uno stagista e dopo di lei ce ne sarebbe stato un altro. Sempre più aziende infatti hanno adibito posizioni di ingresso nel loro organico interamente a stagisti. Il tutto in barba alla normativa, che vieta espressamente l’uso di tirocini per mansioni da lavoro dipendente. Questo perché il tirocinio non è affatto lavoro: è solo un accordo formativo, e per questo non gode di alcuna tutela del lavoro dipendente. Niente ferie, malattia, maternità, contributi, o cassa integrazione.

Questa situazione di precarietà cresce a ritmo impressionante – il numero di stage è più che raddoppiato negli ultimi anni – ed è diventata ancora più lampante con la pandemia: mentre tutti i lavoratori dipendenti sono stati tutelati dalla previdenza sociale o dal blocco dei licenziamenti, tanti stagisti sono stati lasciati a casa in balia della crisi; è bastato un sms che dice «da oggi non abbiamo più bisogno di te». Così si sono ritrovati da un giorno all’altro senza più compenso e senza avere accesso ad alcun sussidio non essendo, sulla carta, lavoratori. E nonostante la parola «giovani» sia onnipresente nei discorsi politici di ogni parte, persino il piano di ripartenza si chiama “Next Generation”, di proposte concrete per risolvere questa situazione ne abbiamo viste poche.

La nostra proposta

Spinti da questa frustrazione crescente, abbiamo preso nelle nostre mani il problema. Per oltre un anno abbiamo studiato la normativa, discusso con giuslavoristi, ci siamo confrontati con sindacati e associazioni datoriali, abbiamo studiato i dati aggregati e li abbiamo approfonditi lanciando un questionario a cui hanno risposto migliaia di stagisti in tutto il paese.

Il risultato è la proposta di riforma che abbiamo pubblicato la settimana scorsa sul sito www.stageapprendistato.it. Chiediamo due cose: che si limiti il ricorso ai tirocini retribuendo anche quelli curriculari, e che si favorisca lo strumento che affianca la formazione a un vero contratto di lavoro: l’apprendistato.

Il primo obiettivo è abbastanza semplice da realizzare: per i tirocini curriculari è già depositata alla Camera una proposta di legge di Massimo Ungaro che prevede più tutele (tra cui retribuzione minima); per gli extracurriculari basta inserire un vincolo temporale, che non consenta l’attivazione di un tirocinio più di sei mesi dopo il conseguimento del titolo di studio. In questo modo si lega lo stage veramente al percorso formativo: uno studente può svolgere un tirocinio durante il corso di studi o entro una finestra di tempo successiva ma limitata.

Dopodiché, lo strumento per formare i giovani inserendoli nel mercato del lavoro diventa l’apprendistato, un vero contratto che garantisce dignità e tutele ai giovani lavoratori. Attualmente, oltre alla concorrenza sleale di un non-contratto come il tirocinio, l’apprendistato soffre anche di una rigidità che spesso ne scoraggia l’attivazione. Parlando con molti datori di lavoro, è emerso che la competenza concorrente di stato e regioni in materia rende farraginosa l’attivazione, la formazione è spesso di complessa gestione, e la durata può arrivare a tre o cinque anni molto più del tirocinio che ogni sei mesi va rinnovato.

Per questo proponiamo una riforma che tocca cinque aspetti chiave dell’apprendistato.

1) Vista l’importanza della digitalizzazione nel Recovery Plan, creare una piattaforma centralizzata su cui il datore può con facilità adempiere a tutti gli obblighi regionali e statali di attivazione e rendicontazione.

2) Per garantire all’impresa più flessibilità nel valutare il “match” con il lavoratore, inserire una o più finestre di uscita anticipata.

3) Per evitare che questa flessibilità si trasformi in precarietà, strutturare una decontribuzione crescente: più a lungo l’apprendista rimane presso l’azienda e maggiore è lo sgravio contributivo.

4) Formazione più agile e specializzata, anche tramite l’integrazione con moduli universitari.

5) Inserire clausole di stabilizzazione, per consentire l’attivazione di nuovi apprendistati solo a chi ne converte almeno un terzo in contratti stabili.

Questi sono in sintesi i princìpi della proposta, che spieghiamo meglio nel testo completo scaricabile dal sito già citato. Proposta che è stata accolta positivamente sia dal pubblico che da figure istituzionali: abbiamo raccolto in pochi giorni oltre cinquemila firme e l’adesione trasversale di molti politici, da LeU fino a +Europa passando per vari esponenti del Pd (tra cui lo stesso segretario, Nicola Zingaretti). Ora servono sempre più persone tutte le età che ci aiutino a chiedere a gran voce un lavoro più dignitoso, una buona politica che continui ad ascoltarci e forze parlamentari che riescano a collaborare per trasformare la proposta in realtà.

Noi siamo i giovani, quelli di cui tutti parlano, ma per cui poi nulla va in porto. Per questo abbiamo scritto noi stessi nero su bianco un piccolo grande passo che chiediamo alla politica e alla nazione di compiere, per cominciare a lavorare nella direzione giusta: partendo da un migliore inserimento nel mondo del lavoro. E chissà, forse questa marcia condivisa potrà guidarci sulla strada giusta anche per altre riforme, che possano migliorare la vita dei giovani e di tutto il paese.

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