Come sempre, il diavolo si annida nei dettagli.

Percorrendo i cinque brevi paragrafi, dal 12 al 18, che nelle conclusioni del Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre sono dedicati al tema del clima, si nota per esempio la parolina “nette” accanto al numero 55, ossia quel 55 per cento che definisce la quota di riduzione delle emissioni rispetto al 1990 che l’Unione europea si impegna a raggiungere nel 2030, in vista della neutralità climatica nel 2050. Una buona notizia, dato che si partiva da un impegno di riduzione del 40 per cento, ma come vedremo meno di quello che appare.

Delusione ambientalista

Si legge poi che il Consiglio europeo si “appella” ai co-legislatori (Parlamento europeo e Consiglio dei ministri Ue di ambiente ed energia) per introdurre questo nuovo obiettivo nella legge sul clima, in corso di definizione da ormai parecchi mesi. Si ammonisce in seguito che questo obiettivo deve essere raggiunto tenendo in conto la competitività, la situazione di partenza e il potenziale dei diversi stati membri, e che ogni stato è libero di includere ciò che vuole nel suo energy mix, incluso tecnologie (?) di “transizione” come il gas, sempre e quando naturalmente siano coerenti con il raggiungimento dell’obiettivo comune.

E poi, il 30 per cento degli 1800 miliardi del bilancio pluriannuale e di Next Generation Eu devono essere dedicati a investimenti che accompagnano la finalità di emissioni zero nel 2050. E si conclude con un testo che sfida ogni capacità di comprensione per i comuni mortali e che riguarda il sistema di “Ets”, cioè lo scambio di quote di emissioni che dovrebbe motivare il sistema produttivo a inquinare di meno pena il pagamento di quote e dall’altra servire a rimpinguare le casse dell’Unione europea per finanziare il Next Generation EU.

Questo testo dice in sostanza che a determinate condizioni – che sono soddisfatte per esempio dalla Polonia - i proventi dell’Ets possono rimanere nelle casse nazionali invece che contribuire alla cassa comune europea.

Letto in questo modo, non è sorprendente che la maggior parte degli osservatori lato ambientalista non abbiano accolto con un entusiasmo trascinante queste decisioni, pur positive.

E allora vediamo di capire che cosa c’è dietro questi brevi paragrafi e cosa rimane da fare.

Non finisce qui

Intanto, è necessario chiarire subito che il Consiglio europeo non è un organo legislativo. Non fa leggi. Non ha un potere diretto di decisione, quindi, ma di indirizzo “strategico” anche se evidentemente condiziona la posizione negoziale dei Consigli settoriali che devono trovare un accordo con Il Parlamento europeo.  Da ciò si può dedurre che, quando si scrive che il Consiglio si “appella” ai co-legislatori per inserire quei numeri nella legge sul clima, si intende che quei numeri non sono necessariamente vincolanti né per il Parlamento europeo né per la Commissione. Tanto è vero che la relatrice del Parlamento europeo – che ha deciso di puntare sul 60 per cento di riduzione delle emissioni al 2030 – Jytta Guteland, ha subito twittato per dire che non ci si può illudere che il 55 per cento di riduzione di emissioni nette sia sufficiente e che lei ha un forte mandato dal Parlamento per ottenere un risultato ben più ambizioso.

Quindi, la storia non è ancora finita. Sapremo il target definitivo di taglio di emissioni dopo l’approvazione della legge sul clima nelle prossime settimane.

Emissioni sì, ma nette

Ed è chiaro che molta attenzione ci sarà, oltre che sul numero finale,  sulla parolina “nette”: c’è infatti una differenza fra il 55 per cento di riduzioni di emissioni e il 55 per cento di emissioni “nette”, cioè che tengono in conto anche le emissioni “tolte” di mezzo non riducendole direttamente ma “compensandole” con assorbimenti nei cosiddetti “pozzi di carbonio” come le foreste. E infatti Greenpeace e WWF parlano di accordo deludente perché la reale riduzione di emissioni alla quale si punta va dal 50,5 al 52 per cento, e se si considera che applicando per bene tutte le legislazioni in vigore si sarebbe arrivati più o meno al 46 per cento si capisce che il risultato del Consiglio non è poi cosi avanzato. Soprattutto se si ricorda che l’IPCC, il “guardiano” del clima delle Nazioni Unite che raduna migliaia di scienziati, ha detto che l’Europa dovrebbe puntare al 2030 a una riduzione delle emissioni del 65% per centrare gli impegni di Parigi.

Governi che frenano

Nelle conclusioni del Consiglio ci sono poi varie frasi che dimostrano come alcuni membri stiano ancora frenando alla grande su tutta l’agenda climatica e vogliano tenersi il più possibile le mani libere (e accedere ai soldi europei). Nell’ultima notte dei negoziati, si sa che la Repubblica ceca ha puntato i piedi per ottenere una specifica menzione del gas come tecnologia di “transizione” e dunque da includere nei finanziamenti per la transizione verde. Purtroppo ci è riuscita e sicuramente anche l’Italia è stata ben felice di questa inclusione.  E la Polonia ha spinto per ottenere più soldi per dare via libera all’accordo, da qui la possibilità inserita di permetterle di utilizzare i proventi dell’Ets senza versarli nel bilancio comunitario. Purtroppo, pur se questa materia è per i Trattati governata dalla procedura legislativa ordinaria, dal 2007 (in presidenza tedesca anche in quel caso) c’è la consuetudine di darsi l’obbligo del consenso, cosa che evidentemente favorisce gli stati membri più recalcitranti.

La valutazione di questo Consiglio dal punto di vista della lotta ai cambiamenti climatici è quindi moderatamente positiva ma ci impone di rimboccarci le maniche, tutti, attivisti, imprese che operano nel green, parlamentari e governanti. Siamo ancora nel pieno della battaglia e la possibilità di centrare gli obiettivi stabiliti a Parigi esiste, ma non è per nulla acquisita.

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