Déjà-vu. Locuzione francese, utilizzata anche nella lingua italiana, che richiama alla mente cose già viste, già vissute e sperimentate. In psicologia, tipo di paramnesia consistente nella sensazione illusoria di aver già visto una certa immagine o di aver già vissuto una certa sensazione.

Da diverse settimane, purtroppo, questa non più è una sensazione costante, ma una tragica realtà nella quale nessuno di noi avrebbe mai sperato di ritrovarsi. Ancora troppo vivide negli occhi le immagini dei pronto soccorso affollati la scorsa primavera, i volti stanchi di medici e infermieri, le strade deserte, le autocertificazioni in tasca, il distacco dai propri familiari.

Se in febbraio abbiamo vissuto nell’ansia, ovvero la paura per la minaccia che deriva da ciò che è ignoto e sconosciuto, portandoci ai gesti irrazionali dei saccheggi nei supermercati o dei treni presi d’assalto per ritornare a casa, oggi l’emozione che ci appartiene è quella dell’angoscia: proiettare nel futuro il trauma del passato generando tristezza e malinconia nel singolo e rabbia nei gruppi.

È un sentimento che già da qualche settimana serpeggia tra gli operatori sanitari dell’ospedale di Codogno o di Lodi che si stanno trovando a dover indossare di nuovo camici monouso, calzari, visiere sopra alle mascherine o doppi guanti.

Pandemic fatigue

Si chiama "pandemic fatigue" che secondo l'Organizzazione mondiale della sanità è "la reazione ad uno stato di crisi prolungata della salute pubblica”, soprattutto perché la gravità e le dimensioni dell’epidemia da Covid-19 hanno richiesto un’implementazione di misure invasive con un impatto senza precedenti nella quotidianità di tutti, compreso di chi non è stato direttamente toccato dal virus.

Il fenomeno della cosiddetta fatigue non nasce con la pandemia, ma è condiviso soprattutto tra coloro che assistono (caregiver) per anni un malato per una patologia cronica, degenerativa, una disabilità o un familiare anziano magari non più autosufficiente. È una stanchezza insidiosa inizialmente non facilmente riconoscibile e che porta giorno dopo giorno alla perdita della fiducia, della speranza e alla rabbia.

Tornando alla sua declinazione in relazione al Covid-19 i fattori in gioco sono molti: innanzitutto il fatto che la pandemia è nuova e ci ha colto –purtroppo ancora una volta– impreparati. L'ultima pandemia è stata la spagnola, dal 1918 al 1920: i sopravvissuti sono ormai pochi e molto anziani, non in grado comunicare e condividere la loro esperienza all'interno dei nuclei familiari.

Inoltre la gravità e l'entità della pandemia da Covid-19 hanno richiesto misure 'invasive', con un impatto senza precedenti sulla vita quotidiana di tutti, compreso di chi non si è ammalato: distanziamento fisico, mascherine per tutto il giorno, limitazione dei contatti tra familiari, stravolgimenti delle modalità scolastiche, l’introduzione dello smart-working in modo diffuso, così come la riduzione se non la perdita del lavoro.

Gli scontri nelle piazze dei giorni scorsi sono la dimostrazione di come questa dinamica stia uscendo dai confini individuali trasformandosi in insofferenza collettiva verso le nuove regole e restrizioni, trasformando quindi la demoralizzazione individuale in rabbia collettiva.

La scorsa primavera, seppur faticosamente, c'è stata una risposta condivisa nell'accettare le restrizioni, nonostante il pensiero costante alla malattia e alla morte, ma sentendoci parte di un unico progetto, familiare e collettivo, partecipi dell'impresa di salvare noi stessi e aiutare gli altri. Ora tutto ciò è minato dalla percezione della disparità dei provvedimenti via via presi e dalla mancanza di un orizzonte temporale certo.

L’angoscia collettiva

Questa volta non ci sono le giornate primaverili a far da cornice ai nostri sguardi fuori dalle finestre, l’estate è lontana e sappiamo che cosa significa non avere una data certa che indichi la fine.

Questa seconda ondata nella quale siamo immersi ci sta dimostrando che non esiste una fase 1 contraddistinta dalla chiusura, dalla malattia e dalle tenebre contrapposta ad una fase 2 fatta di apertura, di salute e di luce: il Covid-19, ancora una volta, ci sta sbattendo in faccia una verità, ovvero che la vita non si fonda su scissioni e antitesi, ma si muove per integrazioni e i molti che negano tutto ciò (negazionisti) sono coloro che non riescono a sostenere e a confrontarsi con il sentimento di angoscia che ne deriva.

Ancora una volta la comunicazione che arriva dalle istituzioni, dai media e dai social gioca un ruolo chiave su ciascuno di noi, individualmente, e sulla collettività. Fornire orizzonti temporali è indispensabile per non soccombere alla stanchezza: la mente per ben funzionare ha bisogno di muoversi entro confini spaziali e temporali definiti, permettendo così di contenere l'ansia e contrastare lo scivolamento depressivo.

Inoltre, in un documento presentato dall’OMS ai governi dell’Unione europea e redatto anche da psichiatri, psicologi e sociologi, si suggerisce in maniera incisiva di mostrare comprensione nei confronti dei cittadini per generare una fiducia sociale nei confronti delle istituzioni e scongiurare il più possibile la rabbia per la percezione di disparità, demoralizzazione e frustrazione. Questo tempo che stiamo vivendo non ha precedenti e ancora una volta dovremo imparare a resistere a difenderci e a convivere con la pandemia senza perdere la speranza e l’idea del futuro.

Franco Basaglia era solito dire che bisogna imparare a fare qualcosa con il buio. Se c’è oggi della luce in queste giornate autunnali, essa può sprigionarsi attraverso la nostra solidarietà, non esibita, ma silenziosa e solitaria.

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