- Il Giusto Mezzo è un movimento composto da donne e uomini della società civile ispirato all’iniziativa della europarlamentare tedesca Alexandra Geese che ha inaugurato la stagione di #HalfofIt
- Con una petizione, a oggi firmata da quasi 45 mila persone, il movimento ha lanciato un chiaro appello al governo: politiche integrate e la costruzione di un welfare strutturale e sistemico, diffuso ed efficiente, su tutto il territorio nazionale
- Istruzione, cura per l’infanzia, servizi e sanità, questi gli elementi alla base di un welfare che possa divenire un “giusto mezzo” in grado di superare le disuguaglianze di genere
In quindici giorni sulla questione femminile è cambiata l’aria. Il premier Conte ha risposto alle richieste delle donne, delle molte voci che si sono levate, e all’appello de Il Giusto Mezzo, dichiarando che parte del Recovery Fund verrà destinato all’altra metà del cielo. Il presidente Mattarella è intervenuto sul tema, sottolineando come lavoro femminile vada di passo con natalità. I ministri Enzo Amendola e Peppe Provenzano ci hanno ricevute.
Il ministro Gualtieri, commentando le misure da inserire in legge di bilancio, ha parlato del finanziamento per l’assegno unico familiare sui figli e per la costruzione di nuovi nidi, definendole correttamente infrastrutture sociali vitali per liberare il lavoro delle donne.
L’APPELLO AL “GIUSTO MEZZO”
Nel nostro appello, che abbiamo portato in piazza e che hanno firmato ad oggi quasi 45 mila persone - si aderisce su www.ilgiustomezzo.it - abbiamo chiesto azioni precise per liberare il lavoro delle donne perché abbiamo una precisa visione di Paese, che speriamo coincida con quella del Governo: secondo noi l’Italia deve agire con politiche integrate ma, soprattutto, deve rimettere in piedi un welfare strutturale e sistemico, diffuso ed efficiente, su tutto il territorio nazionale.
Un welfare che sia un “giusto mezzo” potente, per superare le diseguaglianze e costruire sulla persona pari opportunità a tutte e tutti, in particolare quelle di genere, liberando il tempo delle donne. Il lavoro delle donne è uno strumento di crescita sociale e civile per tutti, ma in particolare è una delle leve su cui agire per ottenere risultati immediati e misurabili in termini di superamento di forti diseguaglianze e dunque di crescita economica del sistema Paese, ovvero di aumento del Pil.
COME POTERLO APPLICARE?
Il come va declinato in modo chirurgico perché, le misure annunciate adesso dal Governo, pur se importanti, se parziali, rischiano di essere negative, rispetto all’obiettivo dichiarato: incentivare il lavoro femminile. Ovvero: l’ausilio economico per i figli, la decontribuzione fiscale per il lavoro, devono inserirsi in un piano straordinario per le infrastrutture sociali.
Se le donne sono supportate da adeguati servizi e da investimenti strutturali nel sociale, stanno meglio, possono lavorare e lavorano meglio e diventano attrici di un benessere diffuso molto più che con investimenti allocati su altri settori. Come le costruzioni, il digitale, la finanza o la “produzione” tout court (anche se noi vorremmo che anche in questo si incentivasse il giusto mezzo, ovvero maggiore presenza delle donne, con politiche educative mirate e cambio di paradigma culturale).
IN QUALI AMBITI INVESTIRE
Investire negli ambiti del sociale ha un ritorno maggiore che investire in altri, ad esempio nel settore edile (secondo uno studio citato da Azzurra Rinaldi, tra le ideatrici del Giusto Mezzo, e ripreso dalla campagna halfofit portata avanti in sede europea dalla parlamentare dei verdi Alexandra Geese, che il nostro movimento sta declinando in Italia).
Costruire una rete di infrastrutture sociali diffusa e operante su tutto il territorio nazionale è una forma di distribuzione della ricchezza e delle opportunità ex-ante. Nella fattispecie diventa condizione abilitante per il lavoro femminile sotto forma di offerta e accesso ai servizi, soprattutto nei luoghi deprivati. I dati del recente rapporto della Caritas sulle povertà confermano il nostro ragionamento: donna, con figli e del Sud, ecco chi è più in povertà, e la crisi rischia di aggravare tale condizione.
Sono esattamente i luoghi dell’assenza di servizi e infrastrutture sociali. Avere nidi, tempo pieno, mense, accesso alla sanità, supporto alla cura, si traduce in mezzo stipendio, se non di più, e quella che ci troviamo a vivere è una crisi della cura più che una crisi economica, come ha dichiarato l’economista Giovanna Badalassi.
LA RICHIESTA
Chiediamo dunque di agire con metodo e politiche capaci di prevenire quei problemi storici del sistema Paese – diseguaglianze, disoccupazione, divari territoriali - che, affrontati ex-post, con assegni, bonus o sussidi, non verrebbero risolti. L’assegno unico è un aiuto, certamente, in sé è positivo, ma deve strettamente collegarsi all’offerta efficace ed efficiente dei servizi, rischiando altrimenti di essere sì un supporto importante, ma di trasformarsi in disincentivo al lavoro per quelle mamme, povere, prive di servizi sul territorio.
Il rischio è insomma che si innesti un meccanismo opposto a quello che si vorrebbe ottenere: i meccanismi di sussidio alla genitorialità sono uno strumento positivo, ma solo se complementari a investimenti in welfare efficace, a riforme, sennò le donne rimangono vincolate al lavoro di cura. Ecco perché insistiamo per un piano straordinario per la realizzazione delle infrastrutture sociali collettive, capace di diventare politica attiva inderogabile per l’incentivazione del lavoro femminile, oltre che di benessere diffuso per tutti e tutte. Istruzione, cura per l’infanzia, servizi e sanità sono il luoghi delle donne ma sono essenzialmente il supporto alla crescita e al benessere umano, sociale, civile e democratico della persona.
Stiamo parlando inoltre di settori in cui le donne sono motore trainante: istruzione, servizi, sanità (la struttura del welfare). Settori che generano lavoro in sé perché occupano un “contingente lavoro paese” considerevole, e lavoro ulteriore, perché, se efficaci ed efficienti, liberano la vita e dunque il lavoro delle donne. Li abbiamo chiamati “investimenti moltiplicatori” proprio per questo motivo: si ripagano da sé e, nel tempo, generano valore, anche economico. Possono e devono anche essere declinati nel digitale e nel green, ambiti privilegiati dal Recovery Fund.
Chiedere che la maternità sia un bene comune, da sostenere con struttura sistemica di servizi e non un carico della donna, significa questo, evitare di monetizzare il welfare perché altrimenti il carico rimane tutto là dov’è oggi: sulle spalle delle donne. Rischio che vediamo palesarsi nuovamente nel caso si rendesse necessario un nuovo lockdown. Vale per il supporto all’infanzia, e così per la Scuola, per la Sanità, per tutto.
LE RISORSE A DISPOSIZIONE
Chiediamo e ci aspettiamo questo: non solo con le risorse del Recovery Fund, ma anche con quelle del bilancio ordinario o con gli altri fondi coesione europei, che (tra parentesi) non spendiamo nemmeno.
A tal riguardo andrebbe accompagnata la gestione e l’attuazione della spesa, anche in rapporto alle competenze delle regioni: stanziare i fondi per la costruzione dei nidi, come il governo sta per fortuna facendo, è un pezzo del problema, far sì che regioni e comuni, specie se ad oggi inadempienti, poi li facciano è l’altro pezzo. E allora capire come procedere: forse serve ripristinare in capo al governo una struttura gestionale dedicata e centralizzata che vigili e accompagni la costruzione delle strutture?
Stanziare risorse per la gestione dei nidi, cioè sul sistema integrato 0-6 e poi non vigilare sulla perequazione territoriale di quei fondi, distribuirli maggiormente nelle regioni e nelle città che nidi e posti già li hanno, ma lasciare scoperte sempre di più regioni e comuni che non li hanno, è l’altro pezzo del problema. E su questo il governo deve interrogarsi: per premialità o penalità agli enti locali inadempienti, o per azioni suppletive. Perché il danno non va al singolo governatore, sindaco, dirigente, ma a quel bambino, a quella bambina, a quella donna, che stiamo lasciando privi di diritti che troppo spesso non sanno nemmeno di avere e non sanno nemmeno rivendicare.
Noi lo facciamo per loro, di chiedere il Giusto Mezzo, non solo tra uomini e donne, ma tra chi ha e chi non ha.
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