Il localismo senza solidarietà ha generato più squilibri territoriali e più sperequazioni finanziarie. Da questa considerazione non si può sfuggire, altrimenti viene meno la capacità di leggere in modo adeguato l’Italia dei comuni.

Il ciclo inaugurato agli inizi degli anni Novanta recava in grembo la convinzione o la speranza che il ripristino dell’autonomia impositiva potesse innescare, attraverso un processo di responsabilizzazione a scala territoriale, potenzialità sufficientemente omogenee di sviluppo, salvo una ragionevole diversificazione nel campo degli investimenti.

Non è andata così. In assenza di sostanziali interventi correttivi nel trasferimento di risorse statali, la riscossione dei tributi ha messo in evidenza l’esistenza di quei dislivelli che necessariamente originavano da basi imponibili assai diversificate. Ecco perché il paese è più diviso. Certamente, un’indagine statistica offrirebbe elementi di valutazione meno empirici sugli effetti registrati nell’ultimo quarto di secolo.

Il federalismo, in aggiunta, ha drogato le aspettative. Non sono bastate le sue varie aggettivazioni - responsabile, solidale, cooperativo - per raddrizzare la curva della corporativizzazione degli interessi, con l’espansione di palesi egoismi geografici, non solo tra nord e sud. Comunque, la logica del “fai da te” nascondeva un principio di secessione strisciante. A forza di interpretare e inseguire e modificare, in un gioco fatto di rincorse e di scavalchi a chi era più federalista, si è visto infine come questo dibattito  abbia depositato sul terreno pochi risultati e molta confusione. Per altro, il federalismo è stato il veicolo di esaltazione di un regionalismo che implicava ed implica da sempre la (inaccettabile) subordinazione dei comuni.

Il titolo V

Veniamo al nuovo Titolo V del 2001. Esso ovviamente non ha alterato la logica che discende dai principi fondamentali della Costituzione. È indubbio tuttavia che nella riforma costituzionale si annidano debolezze e incongruità. Risulta eccessiva la legislazione concorrente tra Stato e Regioni, fantasiosa la creazione delle Città metropolitane, superflua la definizione di Roma Capitale.

Poi, considerata la gestione della pandemia, si stagliano evidenti le distorsioni nel governo della sanità. Un sistema totalmente regionalizzato non funziona, visto che neppure i dati, così necessari per l’epidemiologia, viaggiano in maniera omogenea, con attendibilità e nei tempi giusti, dagli uffici regionali a quelli ministeriali.

Tutti problemi, questi ed altri ancora, che invocano un révirement della politica.

Orbene, la spinta al cambiamento può venire dalla ripresa di un autentico “spirito autonomistico” - la  costituzione evoca la Repubblica delle autonomie - sebbene la democrazia locale presenti essa stessa un volto corrugato. Con l’elezione diretta del Sindaco abbiamo mortificato il luogo per eccellenza del pluralismo, ovvero il Consiglio comunale. La cultura della partecipazione ha ceduto al culto del potere monocratico e le città, in particolare, si sono trasformate nelle quinte teatrali di leadership carismatiche, imprigionate loro malgrado nell’epica della post-democrazia.

La sfida futura

La preoccupazione per la stabilità della vita amministrativa locale, così forte nella fase agonica della Repubblica dei partiti, è scivolata tra le mani del legislatore per incarnarsi nel paradosso di un cesarismo involontario.

In ogni caso, la buona prospettiva di un’Italia in movimento, capace di reagire alla spirale di declino, esige che lo sguardo colga fin d’ora il dinamismo che le comunità, piccole e grandi, possono favorire e sviluppare. Non si uscirà dalla stretta sanitaria ed economica senza uno sforzo di creatività. Servizi a rete, welfare locale, cura dei beni comuni avranno un peso sempre più determinante nella esperienza amministrativa.  

Ebbene, l’avanzamento verso un obiettivo di coesione e equità è la sfida del vissuto comunitario, secondo l’ideale di una società più giusta. Occorre allora una cultura che aggiorni la lezione di Gaetano Salvemini, Luigi Sturzo, Guido Dorso, Giovanni Montermatini, figure diverse con orientamenti politici diversi, che rappresentano però, nella loro ideale impostazione, le stelle polari di un pensiero riformatore scaturente dalla battaglia per le autonomie e prima ancora dalla fiducia nelle autonomie.

E occorre, dopo la buriana del federalismo, la credibilità di una nuova classe dirigente.

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