Mentre scriviamo, la guerra in Caucaso sta per entrare nel suo secondo mese e ieri è fallito il terzo tentativo di tregua umanitaria – iniziata alle 8 di mattina e durata appena una quarantina di minuti – promosso stavolta dagli Stati Uniti dopo la mediazione russa e quella francese. Un tentativo a vuoto, che ha smentito le parole facili dello stesso candidato alla presidenza americana Donald Trump che poche ore prima, durante un comizio elettorale a New Hampshire, aveva preannunciato il successo negoziale definendolo «un compito facile».

Non tanto di diverso avevano ottenuto i tentativi precedenti. Il 10 ottobre la Russia, usando una combinazione di leve e moral suasion, dopo undici ore di negoziati con Armenia e Azerbaijan aveva raggiunto un accordo di tregua durato soltanto tredici minuti. Stesso esito il 17 ottobre, con l’iniziativa francese che era riuscita a produrre una seconda tregua di appena due ore.

Russia, Francia e Stati Uniti – membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu e co-negoziatori Osce per il conflitto – hanno tentato congiuntamente di raggiungere il cessate-il-fuoco, ostacolate prima di tutto dal presidente turco Erdogan che con piglio ipernazionalista e ambizioni neoimperiali ha definito la tregua «inaccettabile» e ribadito il suo sostegno politico-militare incondizionato agli azeri «fino alla fine». Un’espressione che ha trasformato ancor di più quella in corso in una guerra che, per gli armeni, assomiglia ad una minaccia esistenziale: un misto di mattanza dei Balcani e di fanatismo dei tagliatori di teste dell’Isis.

Da sempre gli armeni del Nagorno Karabakh rivendicano l’esercizio del diritto all’autodeterminazione dei popoli, mentre l’Azerbaijan chiede l’integrità territoriale. Ma siamo adesso nel pieno della tragedia che si consuma in diretta. La fallita guerra lampo azera si è trasformata infatti in una guerra di logoramento, con ormai migliaia di vittime, fra cui molti civili, da ambe le parti: Amnesty International e Human Rights Watch hanno documentato l’uso delle bombe al grappolo contro civili armeni; il 70 per cento della popolazione del Nagorno Karabakh è sfollata; il rischio che il conflitto fuoriesca e si regionalizzi è molto elevato.

Nonostante i tentativi di tregua falliti, mentre Russia, Stati Uniti e Francia hanno dall’inizio preso atto dell’aggressione azera contro il Nagorno Karabakh e chiesto spiegazioni alla Turchia rispetto al trasferimento in Azerbaijan di mercenari jihadisti da Siria e Libia (che operano a ridosso delle vie di transito di idrocarburi azeri verso l’Europa), l’Ue  – con gli europei alle prese con la seconda ondata della pandemia che rischia, se non governata, di far impallidire la prima – è stata la grande assente e non è ancora intervenuta come potrebbe. Soprattutto considerato che siamo alle prese con un nostro alleato Nato e candidato all’adesione all’Unione che sta di fatto promuovendo una guerra nel vicinato orientale, sostenendo la proliferazione jihadista, e partecipando direttamente alle operazioni militari.

Alla luce della momentanea stasi politica di Washington, tutta concentrata sul rush finale delle elezioni presidenziali tra pochi giorni, c’è una finestra di opportunità perché l’Ue assuma quella postura geopolitica di autonomia strategica nel vicinato e nel mondo dichiarata dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. L’Europa deve agire adesso, compatta, per evitare che la guerra in Nagorno Karabakh non solo diventi un disastro umanitario di proporzioni ancora maggiori, ma anche che assuma una geografia più ampia.

Anche perché, relegandosi ad un mero status di osservatore, l’Ue perderebbe la propulsione di “potenza normativa” non solo in Caucaso ma in tutto il suo vicinato. Gli accordi di partenariato e gli investimenti europei in innovazione, infrastrutture, capitale umano e riforme strutturali varrebbero poco, perché ogni spazio lasciato ora nella risoluzione del conflitto sarebbe riempito da altri attori.

La guerra – utile ripeterlo – tocca due Paesi partner del vicinato dell’UE, con il coinvolgimento di un Paese candidato all’adesione. Il rischio che la situazione diventi una débâcle per l’Ue (geo)politica è altissimo.

I diversi accordi di tregua umanitaria sono in coma ma non sono ancora morti. Rimangono ad oggi il meglio possibile, anche se non piacciono alla Turchia, che punta solo alla sua scalata economica e geopolitica.

In questi giorni pare stia prendendo corpo una posizione comune fra Parigi e Belino a cui Roma, avvantaggiata dai suoi buoni rapporti con Yerevan, Baku e Ankara, dovrebbe unirsi per condannare con una voce sola ed inequivocabile la guerra ed esercitare ogni azione diplomatica utile nei confronti degli attori della regione, costruendo anche sulle parole del presidente Giuseppe Conte, che nelle ultime ore ha preso una posizione di netta condanna delle provocazioni di Erdogan nei confronti della Francia.

Anche per l’Ue è tempo di mettere da parte l’“ambiguità costruttiva”, per quanto riguarda il Nagorno Karabakh e i suoi rapporti con i Paesi caucasici. Continuare come fatto finora non porterà infatti a qualche risultato per merito degli europei. Al contrario, l’UE dispone (ancora) di un inventario di strumenti e leve legati al negoziato per l’adesione, all’accordo di Unione Doganale, così come ai finanziamenti della BEI per invitare la Turchia a più miti consigli nel suo ampio vicinato. Serve usarli.

Sappiamo bene che se un conflitto supera qualche settimana rischia di diventare intrattabile e lasciare tracce indelebili. Durante i nostri anni universitari a Gorizia, al confine tra Italia e Slovenia, alla fine degli anni Novanta, siamo stati testimoni di come l’incendio etnico nei Balcani si estinguesse, seppur con fatica, e di come i muri, i confini diventassero finestre, ponti, specchi. Siamo convinti che questo sia l’esempio più tangibile dell’essere Europa e siamo persuasi che gli azeri e gli armeni abbiano il diritto di vederne i benefici.

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