Sono madre di due giovani donne con autismo. Avevo 24 anni quando, dopo aver visitato l’irriducibile Chiara, un professore si è congedato da noi dicendomi grave: «Sarà una missione» e 34 quando hanno formulato la stessa infausta diagnosi ad Arianna. Ora ne ho 57 e osservo come le tragedie accadano dentro di noi: io rimasi muta e impietrita e altro non potei fare per Arianna che quanto già facevo per Chiara. Chiamai il Servizio materno infantile e il pediatra ed entrambi i medici rimasero muti e impietriti.

Mi capita di percepire la mia vita come un eterno presente. Credo dipenda in parte dal potere che ha la patologia di bloccarti e lasciarti a guardare la vita fuori scorrere. Se con una bambina con autismo era difficile, con due tutto si fece impossibile: niente lavoro, niente vita sociale, niente di niente, se non l’essermi presa la grande libertà d’assumermi tutte le mie responsabilità e, come in una prova che si faccia sempre più grande, le responsabilità altrui, incluse molte di quelle d’uno stato civile. Ci si aspetta dalla madre l’eroismo e ciò ricorda “la colpa”.

I diritti all’abitare, al vivere nel mondo poco accessibile e non inclusivo e alle cure delle mie figlie sono passati per il mio quotidiano sacrificio. Altro che Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità! Sebbene desiderose di vita, siamo state sempre più escluse e ciò è avvenuto come per effetto d’una selezione naturale. Ma la nostra storia è un copione ampiamente interpretato in cui i deboli, che rallentano e disturbano, vengono scansati assieme a chi se ne prende cura che presto si scopre senza diritti, incluso il diritto alla salute.

(Foto di Marina Morelli)

Viviamo a Roma, dove a novembre siamo state contagiate da un assistente domiciliare. L’assistenza domiciliare è un bisogno essenziale non un capriccio, ma il Covid-19 è entrato in casa nostra attraverso i Servizi sociali territoriali. Sintomatiche, siamo rimaste sole un mese in isolamento: una madre e due figlie con autismo. Crudele.

Il nostro lockdown

In fase di lockdown, data l’esplosività delle situazioni, è stata concessa alle persone con disabilità una passeggiata attorno a casa. Le attività riabilitative erano sospese e, a dire degli addetti, l’unica indicazione per dare un supporto era costituita dall’articolo 48 del Dpcm di marzo, che autorizzava interventi per i casi indifferibili seguiti dai Centri semiresidenziali. Pochissimi sono stati allora gli interventi efficaci. Sono stati effettuati soprattutto supporti in remoto a utenti in grado di reggere una videochiamata, perlopiù con valenza di vicinanza. Ora i Centri hanno riaperto a orario ridotto, turnazione dell’utenza e chiusura delle mense.

Il Servizio Saish, assistenza domiciliare, non è mai stato interrotto a chi non abbia contratto il virus e da dicembre le cooperative devono sottoporre i propri operatori a tampone ogni quindici giorni, ma i municipi, che gestiscono i fondi, non autorizzano assistenza a utenti contagiati né per i cluster familiari e comunque non lo ha fatto il nostro municipio per noi, trattandosi di servizi socio-assistenziali non essenziali e per mancanza di linee guida da parte del dipartimento delle Politiche sociali. È comprensibile quindi che un dirigente non si assuma responsabilità, specie se i medici del lavoro delle cooperative danno il loro diniego. La stessa sorte sarebbe toccata alle persone allettate anche se infettate dai servizi, fatto oltremodo insopportabile.

Noi abbiamo scampato il ricovero, almeno quello. Solo dopo il nostro caso, ma non per questo, pressata dalle associazioni, la Regione Lazio ha redatto un documento con indicazioni per fare assistere le persone con disabilità affette da Covid-19 dai propri caregiver in caso di ricovero. Si spera che questi criteri vengano attuati dalle aziende ospedaliere.

L’incognita dei vaccini

A gennaio, la Regione Lazio avrebbe chiesto alle asl le liste delle persone con disabilità gravissima e a maggio dovrebbero essere vaccinate le persone fragili. Ma verranno le persone con disabilità considerate tutte fragili? I disabili in maggioranza non hanno difese proprie e sebbene ve ne siano che godono di buona salute restano tra i più fragili tra noi poiché non autosufficienti.

In questo scenario, sulla nostra pelle risulta ad oggi la scelta di non vaccinare gli operatori socio-assistenziali, i quali, oltre a essere sovraesposti al contagio per la natura stessa delle loro mansioni, non sono adeguatamente formati all’utilizzo delle misure di protezione. La politica si decida a fare scelte civili, noi caregiver siamo sfiniti e costretti a gridarlo.

Un pensiero rivolgo alle madri che vivono sole con i loro figli più fragili: “donne senza colpa” che subiscono quotidiane privazioni dei bisogni fondamentali e immutabili nell’essere umano. Non hanno nessuna libertà e se malate non possono curarsi né riposare, una crudeltà, nonostante contribuiscano da vere servitrici dello stato a mandare avanti il sistema. Invece, trattate come schiave, NOI SIAMO RIDOTTE SENZA DIRITTI.

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