Il 6 settembre 1642 il Parlamento inglese, a maggioranza puritana, emanò un editto che sanciva la chiusura di tutti i teatri, colpevoli di promuovere «gioia e leggerezza» in un clima di «calamità pubbliche». Si trattava, chiaramente, di un pretesto che celava in realtà interessi politici: gli attori erano considerati indistintamente monarchici, ma soprattutto, i puritani vedevano nel teatro un veicolo di propaganda politica che incitava alla ribellione e che promuoveva gli interessi politici delle masse contro le élite al potere.

Per corroborare la validità della loro decisione, i puritani aggiunsero anche che i teatri erano il veicolo primo della peste che si stava diffondendo nell’Inghilterra del diciassettesimo secolo; fu poi la realtà a smentirli, quando la peste colpì Londra in più ondate, pur con i teatri chiusi.

Nel frattempo, attori e compagnie teatrali precipitarono nell’indigenza assoluta; il puritano radicale Prynne promise un indennizzo agli attori, una promessa che però rimase lettera morta. John Lowin, uno dei superstiti della compagnia di Shakespeare, finì per aprire una locanda per guadagnarsi da vivere. Vi morì quando ormai «era tanto povero quanto era vecchio».

Domenica 25 ottobre 2020, il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha firmato un dpcm che sancisce la chiusura di cinema e teatri, e la didattica a distanza al 75% per le scuole. E che la dice lunga sulle priorità del governo.

L’idea che la cultura sia sempre sacrificabile viene dalla convinzione che quello culturale non sia un comparto produttivo: la scuola non frutta soldi, non aumenta il prodotto interno lordo italiano. I teatri e i cinema lo fanno in modo economicamente irrisorio, e dunque sacrificabile. Questo è il messaggio che passa.

In una situazione di emergenza – adesso in Italia come nel ‘600 in Inghilterra – se c’è una cosa che si può sacrificare, questa è la cultura, la scuola, l’università. Ma un paese che pensa questo è un paese che manca di ogni tipo di progettualità a lungo termine, che non sa guardare oltre trimestri e semestri dei bilanci economici, e che peraltro agisce demagogicamente usando i numeri di contagi, morti e terapie intensive senza contestualizzarli: perché se andassimo a correlare quei contagi ai luoghi in cui si sono diffusi, vedremmo che la scuola, i cinema e i teatri non sono i primi luoghi di diffusione.

Lo sono i trasporti pubblici, ad esempio, su cui si sarebbe dovuto intervenire quando la ministra Azzolina pensava ai banchi a rotelle, forse reputandoli un possibile mezzo di trasporto casa-scuola.

Ma bisognerebbe smettere di pensare che la cultura sia la domenica dello spirito, che sia l’intrattenimento e la distrazione a cui ci si può dedicare solo se avanza tempo dalle attività realmente produttive. Perché è questo il pensiero di fondo che anima anche la chiusura delle scuole: che con la cultura non si mangia.

Ed è il messaggio più sbagliato da far passare ai giovani, ai ragazzi, che la loro scuola è sacrificabile, ma il lavoro dei loro genitori no. Che loro la scuola possono farla a distanza – perdendo tutto il valore di scambio, di confronto, e facendo sì che la lezioni somigli a una messa, in cui c’è uno che parla e tutti gli altri che, senza potersi confrontare tra loro, ascoltano – ma che i loro genitori a lavoro ci devono andare (o quantomeno i loro padri, perché qualcuno dovrà pur stare a casa con i figli in dad, e quel qualcuno, i dati ci dicono, è quasi sempre di sesso femminile). Che i lavoratori dello spettacolo non sono sullo stesso piano degli altri. Che in quanto esseri umani siamo riducibili alla capacità di produrre e far circolare denaro, non idee. Che va tutto bene finché non abbiamo il covid, anche se siamo chiusi in casa ad assorbire un’ondata di numeri.

Io sono giovane, ho 22 anni, e non mi va bene che passi l’idea che i giovani protestino solo quando vengono chiusi i pub; sono stufa di sentir dire che la scuola, l’università, i cinema, i teatri sono luoghi di contagio epidemico. Sono luoghi di contagio di idee, di democrazia, di pensiero critico, di mediazione, di scambio, di confronto e di scontro – questo sì.

E forse è questo che fa paura, al governo italiano come a quello inglese del ‘600.

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