Il tumultuoso sviluppo dell’èra digitale offre strumenti che abbattono tempo e distanze e consente flussi informativi senza precedenti. Ciò rende potenzialmente più semplice l’intervento dei singoli cittadini sulla vita pubblica. Si pensi al voto elettronico, alle sottoscrizioni telematiche di liste, leggi popolari, referendum. Il futuro potrebbe dunque arridere anche alla democrazia diretta.

La democrazia rappresentativa, del resto, appare a molti in crisi: torsioni autoritarie, malcostume, irresponsabilità dei governanti, fenomeni di contestazione radicale “dal basso”, con i vari populismi o l’esplodere dell’astensionismo.

La democrazia diretta può essere la soluzione, adesso che sembra possibile superare le barriere tecniche e spaziali che l’avevano relegata ai margini? Certo, ridotti gli ostacoli materiali, potrebbe rafforzarsi ancora di più la convinzione largamente diffusa che, in sé, la democrazia diretta sia una forma superiore all’altra. Così la pensava J.J. Rousseau nel Contratto sociale (salvo poi ricredersi successivamente): «Il popolo inglese ritiene di esser libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento. Appena questi sono eletti, esso è schiavo, non è nulla». Decidere direttamente è certamente meglio di delegare.

La questione, però, non è così semplice. Molti studiosi, e non da oggi, ritengono infatti che tra le due “democrazie” non vi sia un rapporto di subordinazione, ma differenze funzionali e operative, con i loro pro e contra.

Pregi e difetti

La democrazia diretta, garantisce certamente l’esercizio immediato del potere, ma il tipo di decisioni consentite è strutturalmente limitato: una scelta binaria, Sì o No. Inevitabilmente viene sacrificato un momento fondamentale dell’attività deliberativa, soprattutto di fronte a problemi particolarmente complessi e all’esigenza di scelte rapide: il confronto dialettico.

All’opposto, quella rappresentativa presenta alcune frecce al proprio arco. Oltre alla possibilità di assumere decisioni complesse e ponderate, la previsione di un mandato elettivo durevole (due, tre, cinque anni) permette ai rappresentanti di inserire ciascuna decisione in un disegno più generale: così da consentire di assumere anche singole decisioni impopolari, nell’ambito di un indirizzo politico però complessivamente apprezzato.

Inoltre, la democrazia rappresentativa consente il dispiegarsi della responsabilità politica: gli elettori posso valutare l’attività svolta dai rappresentanti, e premiarli o punirli alle elezioni. Infine consente una “divisione del lavoro”, che lascia ai cittadini la possibilità di dedicarsi alle proprie attività private. Certo, questa divisione del lavoro presenta rischi di professionalizzazione e derive oligarchiche. Gli antidoti sono dunque fondamentali.

Ciò non vuol dire, come dicevo, negare i limiti della democrazia rappresentativa. Le sue tendenze elitiste e corporative sono state messe in luce da tanti pensatori (da Mosca e Pareto fino a Bernard Manin). La scelta tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa non può essere dunque un aut aut. Il vero problema è trovare una combinazione quanto più virtuosa possibile tra le due.

E sarà necessario lavorare sul miglioramento di entrambe. Del resto, al di là della distinzione ideale, le due forme di democrazie hanno al proprio interno, innumerevoli varianti, che consentono di migliorarne le prestazioni in relazione al contesto politico di ciascun paese.

L’èra digitale ci offre grandi opportunità, ma il giusto equilibrio non si trova negando la complessità e cedendo ai miraggi di soluzioni semplicistiche. Solo così si può costruire il futuro della democrazia complessivamente intesa.

Questo testo è parte di una lezione su Il futuro della democrazia diretta tenuta nell’ambito di Future Sight, 40° dell’Università di Tor Vergata

© Riproduzione riservata