Il 5 novembre venite in piazza, tanti e tante. Questa guerra va fermata.

Sono passati otto mesi dall’invasione russa dell’Ucraina. La vittoria lampo di Vladimir Putin non c’è stata, ma neppure quella di Volodymyr Zelensky. La guerra si è incistata.

In tutta l’Ucraina aumentano le vittime, le distruzioni, le sofferenze, i profughi. Il golpe contro Putin non c’è stato. I dissidenti russi riempiono le galere e a migliaia sono rifugiati all’estero.

I rischi di allargamento del conflitto crescono. Da una guerra mondiale a pezzetti, il passo verso una guerra mondiale dichiarata è sempre più breve.

I soldi che ogni giorno si bruciano in armi sono una enormità e una vergogna. La crisi energetica, l’inflazione, la crisi alimentare mettono in ginocchio i poveri e la classe media lavoratrice anche in Europa. La guerra ferma la transizione energetica e aumenta la diseguaglianza. I governi gonfiano ovunque le spese militari.

E torna in campo, dopo decenni, l’incubo di un conflitto nucleare.

L’iniziativa di pace: se non ora, quando?

La parola lasciata alle armi

Solo le armi parlano, la politica pare scomparsa. La sua assenza è stata premessa della guerra, con la non applicazione degli accordi di Minsk che avrebbero sanato il conflitto già in atto da anni.

Il governo del paese invaso, che dovrebbe pretendere l’impegno diplomatico per mettere fine alle sofferenze della sua gente e avere giustizia, lo rifiuta. Putin ne approfitta per alimentare il nazionalismo bellicista.

E anche da noi torna la retorica della guerra che si può vincere. Si riafferma la guerra come valore, e i guerrieri come eroi.

I nostri resistenti, i partigiani che avevano combattuto in armi i nazifascisti, scrissero nella Costituzione «L'Italia ripudia la guerra»: ripudiamo, voltiamo le spalle a qualcosa che era nostro, e proprio perché abbiamo fatto la guerra possiamo dire: mai più.

Ed ecco invece il ritorno alla primitiva "logica della clava": se si viene colpiti, l'unica risposta possibile è colpire di nuovo, possibilmente con un bastone più grande.

La risposta del diritto

No. Noi diciamo no. Il lungo e faticoso percorso degli esseri umani per civilizzare il conflitto ha prodotto un altro tipo di risposta: il diritto e il diritto internazionale.

Il diritto internazionale dà forza a chi non ha potere. È la forza dei deboli. È l’unica arma che vale la pena di prendere in mano.

L'articolo 51 della Carta dell’Onu dichiara il diritto all'autodifesa per i paesi occupati, ma fino a che la comunità internazionale non prenda le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza.

Gli ucraini hanno il diritto di difendersi, ma la comunità internazionale ha il dovere di ristabilire la pace, non di partecipare alla guerra.

Pace, pane, pianeta

Viviamo in un continente senza confini fisici a est e a sud. Il Mediterraneo e l’est Europa sono sempre state regioni di intersezione tra culture, storie, religioni e popoli diversi. Avrebbero potuto essere le più ricche e le più sviluppate del continente - ponti verso altre regioni del mondo, luoghi di convivenza e di intercultura.

Al contrario, ne abbiamo fatto periferie e confini armati - nel Mediterraneo e nell'Europa orientale. È una condanna a morte per l’est e per il Ssud Europa, Italia inclusa.

Il 5 novembre venite in piazza San Giovanni a Roma. La maggioranza di questo paese vuole rispondere alla guerra con la giustizia, non con la guerra. Con la sicurezza comune e condivisa, non con le armi. L’Europa deve essere parte della soluzione, non del problema.

Facciamo vedere la nostra forza e la nostra intelligenza. Cessate il fuoco subito. Negoziato subito. Pace. Pane. Pianeta.

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