A circa due anni dall’entrata in vigore del primo “decreto sicurezza” sotto il “Conte1”, il governo “Conte 2” ha finalmente approvato una serie di modifiche a quelle pessime nome passate alla storia come “decreti Salvini”.

In termini generali, sebbene con così tanto ritardo e con un evidente ricorso a una mediazione che mal si concilia con la natura assoluta dei diritti umani, è apprezzabile il fatto che si sia proceduto alla revisione di norme che in molti casi erano state smentite dalla stessa magistratura, come nel caso del divieto di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo, e che si siano voluti superare i rilievi minimi espressi a suo tempo dal presidente della Repubblica.

Il passo avanti più importante è il ripristino, sotto la denominazione di “protezione sociale”, di quella protezione umanitaria la cui cancellazione, in nome di chissà quale “sicurezza”, aveva dato luogo a una vera e propria bomba sociale riducendo all'invisibilità decine di migliaia di persone: ottantamila, secondo il sociologo Marco Omizzolo, autore della ricerca I sommersi dell’accoglienza, realizzata all’inizio del 2020 per Amnesty International Italia.

Ora si tratterà di capire, magari con una decretazione a parte, come rimediare a quella invisibilità che ha significato perdita di diritti e infragilimento delle vite, in un periodo già reso complicato dalla pandemia.

Bene il ritorno del sistema di accoglienza Sprar da cui erano stati espulsi i richiedenti asilo. Potranno nuovamente iscriversi all’anagrafe e saranno dotati di una sorta di carta di identità, riconosciuta dallo stato italiano, valida per tre anni. La sfida ora è tutta per i comuni, cui passa la competenza in materia: riusciranno a provvedere ai servizi per l'inclusione sociale, come ad esempio l'insegnamento della lingua italiana?

Importante è anche la garanzia, per le persone detenute nei Centri di permanenza per il rimpatrio, di potersi rivolgere al garante nazionale o regionale per le persone private della libertà personale.

En passant, sull’onda dell’indignazione per il feroce omicidio di Willy Monteiro Duarte, sono state inasprite le norme sul reato di rissa e quelle sul Daspo urbano: il segnale dato, e che si vorrebbe percepito, che “lo stato c’è”. Ma siamo al solito punto: innalzare le pene di per sé non è male, ma non basta: quando si investirà sulla promozione dei valori del rispetto e della non discriminazione (magari grazie anche al ripristino dell’Educazione civica nelle scuole), potrà andare meglio.

Fine del bicchiere mezzo pieno.

La riformulazione della norma relativa alle sanzioni è difficile da digerire. L’idea che si debba rispettare il requisito della non violazione del codice della navigazione per non incorrere in multe e carcere continua a essere figlia della narrativa sorta della primavera ed estate del 2017, prima colpevolizzante (Di Maio e i “taxi del mare”), poi disciplinante (Minniti e il suo codice di condotta) e infine criminalizzante (Salvini e la sua decretazione) nei confronti delle organizzazioni non governative di ricerca e soccorso in mare.

Certo, le sanzioni ora sono previste in un’ipotesi che viene definita residuale: quella di un intervento di una nave di soccorso in aree di competenza italiana che non rispettasse le disposizioni impartite, ad esempio forzando per necessità un blocco navale. Come fece Carola Rackete al timone della Sea Watch 3. Allora, forse, del tutto “residuale” quell’ipotesi non è.

Si dica dunque una volta per tutte e in modo chiaro: salvare vite umane è un’attività nobile, preziosa e soprattutto legittima o è un reato?

A conferma che non tutto è risolto, per una tragica coincidenza, alla notizia dell’avvenuta approvazione delle modifiche ai decreti sicurezza si è sovrapposta quella sulla morte di Abou, un minorenne ivoriano salvato dalla nave “Open Arms” e trasferito sulla nave-quarantena “Allegra” nonostante mostrasse evidenti segni di denutrizione e di tortura. E lì, sulla “Allegra”, le sue condizioni di salute sono precipitate fino alla morte, avvenuta in un ospedale di Palermo.

Quella coincidenza ci ricorda che abbiamo ancora un problema. Per usare un’espressione tornata di moda in queste settimane, la “morte nera” degli accordi, tuttora in piedi, con la Libia in tema d’immigrazione.

Accordi che sono l’esempio più atroce dell’ostinazione, ormai pluridecennale, da parte dei nostri amministratori e dell’Europa, a voler “tener fuori il problema” come se fosse un’emergenza temporanea anziché un fenomeno fisiologico, permanente e da governare.

Investire sull’accoglienza e sui diritti è l’unica strada virtuosa e possibile.

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