Può esserci transizione ecologica senza che si affronti seriamente, e in modo definitivo, l’annosa vicenda dello stabilimento siderurgico ex Ilva di Taranto? La risposta è meno retorica di quanto sembri e potremmo trovarla se ci fosse un Piano industriale, auspicabilmente innovativo, con lo sguardo rivolto al futuro.

Parliamo dell’impianto siderurgico più grande d’Europa, unico rimasto in Italia che produce acciaio a ciclo integrale, con produzione da carbone e da minerale attraverso l’altoforno. Uno stabilimento strategico per un paese manifatturiero al centro di una vertenza ambientale pluridecennale che Legambiente segue dagli inizi degli anni ottanta.

L’ingresso dello stato

Da un paio di settimane ha cambiato nome e assetto societario. Ora lo stabilimento si chiama Acciaierie d’Italia dopo che è stato formalizzato l’ingresso dello stato italiano, con Invitalia, nella società della multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal. Abbiamo quindi una nuova società a partecipazione pubblica.

Nella sostanza, nonostante le roboanti promesse, per i cittadini e i lavoratori non è cambiato ancora nulla. A nove anni dal sequestro senza facoltà d’uso degli impianti dell’area a caldo da parte della magistratura tarantina, che portò la vicenda Ilva alla ribalta della cronaca nazionale, non hanno trovato risposte né le ragioni della salute e dell’ambiente, né le ragioni del lavoro. Le condizioni degli impianti sono peggiorate, gli incidenti sul lavoro si susseguono quasi settimanalmente. Continua il conflitto tra istituzioni locali e governo nazionale, anche a colpi di carta bollata tra ricorsi al Tar e Consiglio di Stato, mentre la città attende la sentenza di primo grado nel processo “Ambiente Svenduto”.  

Il risultato è che la città è sempre più sfiduciata e la questione sociale si è aggravata.

Una vicenda complessa

Non ci sono ricette semplicistiche: è una vicenda industriale complessa, per l’intricato intreccio di aspetti occupazionali, sociali, sanitari, ambientali, di mercato internazionale dell’acciaio. Per essere affrontata avrebbe bisogno di una visione di ampio respiro e capacità manageriali di altissimo livello.

La speranza è che l’ingresso dello Stato si qualifichi non per continuare a tenere in piedi a qualsiasi costo la produzione e i posti di lavoro, con qualche maquillage agli impianti, ma per imprimere finalmente una svolta seguendo il faro della decarbonizzazione indicato dall’Europa, per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Un obiettivo climatico che non potrà essere raggiunto senza riconvertire i processi industriali particolarmente inquinanti, tra cui la siderurgia. Il programma europeo Next Generation EU, con le risorse del Recovery Fund e del Fondo per la Giusta Transizione, tolgono alibi alla mancanza di risorse. Servono invece idee chiare e coraggio nell’accettare questa sfida industriale, ambientale, sociale.

La premessa è che qualsiasi ipotesi di conservazione di produzione di acciaio a Taranto debba essere assoggettata alla Valutazione integrata dell'impatto sanitario oltre che ambientale (Viias), per escludere danni inaccettabili per la salute di cittadini e lavoratori. Non si può aspettare le future indagini epidemiologiche che, ex post, ci dicano che a Taranto si è continuato a morire di acciaio.

Quanto all’auspicato Piano industriale, deve contenere un ridimensionamento della capacità produttiva del ciclo integrale a carbone grazie alla costruzione di forni elettrici e alla realizzazione, da prevedere subito, di un impianto che utilizzi l’idrogeno verde per produrre acciaio, sulla falsariga del progetto svedese Hybrit. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) presentato dal Governo Draghi sulla prospettiva industriale dell’idrogeno purtroppo fa solo un riferimento generico alla siderurgia, senza indicare né tempi né impianti. Non è un bel segnale e speriamo che nell’interlocuzione con la Commissione europea si indichino tempi certi. L’innovazione dell’impianto siderurgico jonico è per Legambiente tra le 10 opere faro su cui valuteremo la concreta realizzazione della transizione ecologica.

Certezza per i lavoratori

Affrontare l’innovazione tecnologica ed ambientale dello stabilimento ex Ilva darà qualche certezza alla città e ai lavoratori, non sarà però sufficiente a dare risposte alle tante persone che hanno perso il posto di lavoro, in una provincia già particolarmente colpita dalla disoccupazione, né alle aspettative delle nuove generazioni. Uscire dalla monocoltura dell’acciaio è quindi l’altra grande sfida. Il territorio della provincia jonica confina con quello brindisino, anch’esso coinvolto dalla transizione energetica considerato che ospita impianti industriali inquinanti tra cui un polo chimico e un’importante centrale a carbone che dovrà essere chiusa entro il 2025. I due territori possono progettare insieme il loro futuro, senza competizioni campanilistiche, creando sinergie tra le tante risorse di cui dispongono: infrastrutturali, culturali e ambientali. Grazie anche al Fondo per la giusta transizione, messo a disposizione dall’Europa, si può e si deve puntare a un distretto dell’innovazione industriale green: un progetto ambizioso al 2030 per garantire un futuro pulito alla siderurgia, alla chimica, alla produzione energetica e all’occupazione. Vanno accelerate le bonifiche dei territori inquinati, la riqualificazione dei tessuti urbani, rafforzata la vocazione energetica attraverso lo sviluppo di eolico offshore, solare fotovoltaico e termodinamico nelle aree dismesse bonificate, agrivoltaico, impianti di accumulo di energia elettrica e interventi di diversificazione del tessuto produttivo. Interventi che devono essere accompagnati da un piano di formazione delle nuove e necessarie competenze lavorative e da un processo di partecipazione e di mobilitazione dei cittadini e delle forze sociali, culturali e produttive locali.

Le due province del Sud Italia possono scrivere insieme una nuova pagina di politica industriale, accelerando la transizione ecologica, una transizione giusta che non lasci indietro nessuno.

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