Nella fase acuta di una pandemia, o di una crisi economico-finanziaria di portata globale, c’è una misura urgente e necessaria per non far collassare le strutture economiche e sociali: l’iniezione di liquidità da destinare al credito, ai cittadini e alle imprese. L’obiettivo è scongiurare, per quanto possibile, la chiusura delle attività produttive e commerciali e, quindi, il crollo dell’occupazione, dei salari e della domanda interna, insieme alle pesanti ricadute anche sui fatturati delle imprese che riescono a rimanere aperte.

Sul medio termine, però, la liquidità emergenziale non è sufficiente perché la caduta del Pil, che in ogni caso avverrà in seguito ad uno shock finanziario o, in questo caso, sanitario, porterà con sé un aumento della disoccupazione e, potenzialmente, delle diseguaglianze di reddito e di opportunità.

Gli effetti della crisi

A questo proposito, esistono, tra i tanti, due temi fondamentali da affrontare: il disagio personale dei singoli cittadini e la disoccupazione di massa. Il disagio, la sofferenza, l’aggravarsi di problemi personali, possono portare a tragedie indicibili, fino all’autolesionismo e al suicidio, drammi su cui è possibile intervenire attraverso la proposta di legge 2151, depositata alla Camera dei deputati, di cui ritengo necessario iniziare l’esame con urgenza, così come ritiene il Consiglio regionale del Piemonte, che il 30 dicembre ha votato un ordine del giorno che chiede di sollecitare governo e parlamento affinché si approvi questa normativa di settore.

La disoccupazione crescente è altrettanto grave, oltre ad essere un fattore di rischio ulteriore per gli atti autolesionistici.

In entrambi i casi, l’assenza di prospettive di vita, l’incertezza, la paura del futuro, domandano l’intervento dello Stato.

È prioritario, dunque, affrontare il tema cardine del lavoro, riconoscendo che il settore privato non sarà in grado di assorbire in modo adeguato le persone in cerca di nuova occupazione a seguito della fase di sblocco dei licenziamenti. Se non è immediatamente percorribile, per varie ragioni, anche politiche, la strada di uno stato interventista che si occupi direttamente della creazione di posti di lavoro, puntare sulla cultura dell’impresa e sulla creazione di nuove imprese stimolando una maggiore competitività potrebbe essere una strada praticabile.

Ma, anche qui, un individuo che intende avviare un’iniziativa privata si trova a dover assumere un rischio importante, sia perché occorre un capitale di partenza, sia perché non è sempre possibile sostenere i costi di tasse e imposte, e la possibilità di fallire può dissuadere anche gli individui con le idee più brillanti, soprattutto in una fase di profonda incertezza verso il futuro.

Di fronte a questo timore, vogliamo ipotizzare una misura dello stato che dà certezze: se lo stato in un momento di profonda incertezza si fa carico del rischio iniziale e offre un impulso all’avvio dell’impresa, è possibile che il cittadino sia propenso a cercare di realizzare un progetto lavorativo in proprio cui, altrimenti, rinuncia. Qualche garanzia importante per aspiranti lavoratori “non garantiti”.

La proposta

Il programma Impresa di cittadinanza prevede l’avvio di due modelli di iniziativa privata: la Partita Iva di cittadinanza (Pic) e l’Impresa di cittadinanza (Ic).
In entrambi i casi, si prevede l’eliminazione di tasse, imposte e di gran parte degli oneri burocratici legati all’avvio dell’impresa, per la durata massima di due anni (entro il raggiungimento di determinati importi di fatturato) ed un contributo statale, di importo variabile, per la durata massima di 18 mesi, le cui prime sei mensilità sarebbero anticipate come trasferimento diretto, mentre i successivi dodici mesi potrebbero essere finanziati attraverso il fondo di garanzia per le Pmi, bonus fiscali circolari nel settore merceologico di riferimento o finanziamento diretto dello stato o di istituti di credito (per quanto riguarda questi ultimi, anche con un processo assimilabile alla cessione del credito del super bonus del 110 per cento). Naturalmente, sarebbe una misura compatibile con le soglie di aiuto disciplinate dal diritto comunitario.

Al fine di incentivare l’avvio di imprese in misura maggiore rispetto alle partite iva, si potrà prevedere un sostegno più corposo al crescere del numero di persone che avviano la nuova attività.

La misura sarebbe compatibile con l’acquisizione del Reddito di cittadinanza e ogni altra misura di sostegno al reddito (entro i limiti di reddito previsti dalla normativa vigente).

La platea di beneficiari dovrebbe comprendere certamente disoccupati da almeno 12 mesi o che abbiano lavorato meno di 24 settimane nel corso degli ultimi 12 mesi, così come i titolari di aziende che abbiano chiuso le attività e le proprie partite iva esclusivamente a causa dell’emergenza Covid-19. Necessariamente dovrà comprendere ogni individuo sottoposto a cessazione del proprio contratto di lavoro in seguito al termine del blocco dei licenziamenti.

È evidente che realizzare una misura di questo tipo presenta un alto rischio di abusi, su cui il parlamento e i ministeri competenti dovranno essere attenti a legiferare. Per esempio, dovranno esserci limiti alla possibilità di esternalizzare servizi a Pic o Ic aperte da meno di 24 mesi, per evitare che si creino meccanismi di licenziamento di personale ai quali affidare lo stesso incarico precedentemente svolto nella stessa azienda, solo al fine di pagare meno tasse.

È altresì evidente che non tutti potranno accedere ai benefici, ad esempio dovranno essere esclusi coloro che sono stati condannati per reati commessi contro la pubblica amministrazione, gli iscritti ai database della Centrale Rischi Finanziari (magari salvando chi si è trovato in difficoltà serie, con importi bassi di insolvenza) o i condannati per reati di carattere mafioso e danno erariale.

La misura potrà svolgere la sua funzione positiva solo se nel frattempo lo stato interverrà in modo significativo nell’economia, rilanciando gli investimenti pubblici e la domanda interna. Insieme agli oneri fiscali e burocratici, ciò che dissuade anche l’imprenditore più coraggioso ad aprire una nuova attività in tempi di crisi e recessione è il crollo della domanda interna e, pertanto, delle prospettive di vendita. Assemblando un’azione anti-ciclica del settore pubblico e Impresa di cittadinanza è possibile dare il via ad un circolo virtuoso nel quale il settore privato continuerà a svolgere un ruolo predominante.

© Riproduzione riservata