Lo scorso ottobre il ministro della Ricerca Gaetano Manfredi ha annunciato l’impegno del governo per l’aumento degli investimenti in ricerca scientifica. Uno stanziamento di 15 miliardi di euro in cinque anni che ci “allineerebbe” con la Francia ma non sarebbe sufficiente a raggiungere la Germania entro il 2026, l’obiettivo originale del Piano Amaldi, avanzato dal fisico Ugo Amaldi, che prevedeva un investimento pari all'1,1 per cento del Pil entro il 2026, contro lo 0,5 per cento attuale.

Un altro punto fondamentale del Piano Amaldi è la spinta decisa verso la ricerca applicata, oltre che quella di base: questo aspetto ha avuto un impatto preponderante anche nell’attenzione ottenuta, sia da parte dei media che dal pubblico, rispetto a un tema come quello della ricerca scientifica, normalmente visto come lontano da questioni pratiche e relegato in ultimissimo piano nel dibattito politico. Portare al grande pubblico il messaggio chiaro che la ricerca scientifica (di base e applicata) e l’istruzione sono parte di una filiera della conoscenza che impatta direttamente e positivamente sul tenore di vita, non solo delle generazioni future ma anche nel presente, è stato un successo della campagna social e mediatica del Piano Amaldi che non può essere misconosciuto.

Attendiamo in questi giorni che i buoni propositi espressi dal governo si materializzino finalmente nella legge di Bilancio. Le bozze che circolano ancora non sembrano destinare gli 1,5 miliardi di euro previsti per il 2021 dal Piano Amaldi in versione originale o il miliardo dell’opzione “francese” proposta dal gruppo di scienziati (tra cui lo stesso Ugo Amaldi) firmatari della lettera al Corriere della Sera. Speriamo quindi che gli stanziamenti aggiuntivi siano inseriti nelle richieste di anticipo relative al Recovery Fund (ben 120 miliardi in tre anni, di cui 34 per il 2021).

Manca un piano

Non è ancora chiaro inoltre quale sia la strategia del governo italiano relativa alle quattro direttrici previste dal Piano Amaldi, ossia: risorse umane, progetti, infrastrutture e, soprattutto, trasferimento tecnologico verso il sistema delle imprese private, che rappresenta una condizione critica per rendere il sistema industriale del paese competitivo sul mercato globale. Ricordiamo che al momento la capacità brevettuale sul mercato europeo e quello americano delle imprese italiane è circa 15 volte inferiore rispetto a quelle tedesche.

Non possiamo però tralasciare il fatto che il problema italiano non è solo finanziario. La nostra ricerca manca di materia prima: tra i 28 paesi della Ue, l’Italia è ultima con il 27,8 per cento di laureati nella fascia intorno ai 35 anni di età, superata in peggio solo dalla Romania con il 24,6 per cento. L'Italia è anche tra i Paesi che conta più abbandoni agli studi, dopo Spagna, Malta e Romania: circa il 50 per cento dei giovani non si iscrive all’università nello stesso anno del conseguimento del diploma di scuola superiore. I nostri pochi talenti (relativamente ad altri paesi avanzati) sfornati dalle università ci vengono spesso sottratti: su cinquanta vincitori italiani di finanziamenti europei per progetti di grande rilevanza scientifica (Erc) solo venti svolgono la loro attività di ricerca in Italia. Anche guardando ai corsi di Istruzione tecnica superiore in Europa, si contano 880mila iscritti in Germania, 116mila in Francia, 40mila in Austria, 31mila in Svezia mentre l’Italia figura buon’ultima con quattromila iscritti.

La ricerca è il nostro petrolio

È ormai tempo che il paese cresca e smetta di rifugiarsi in slogan triti e ripetuti da trent’anni da media e politici che vedono, per esempio, nel turismo il «nostro petrolio». Settori tradizionali come Made in Italy, turismo e costruzioni sono certo importantissimi e tutti speriamo che si risollevino presto, tuttavia si sono dimostrati fragili.  La pandemia di Covid-19 ha dimostrato in modo incontrovertibile come le economie dei paesi che investono molto in ricerca siano più resistenti agli shock globali mentre le nostre attività economiche tradizionali si sono dimostrate estremamente esposte. È notizia recente che la Spagna vuole incrementare il bilancio della ricerca scientifica del 60 per cento, inserendolo in uno scostamento di bilancio da coprire col Recovery Fund: si parla di ben 3,2 miliardi di euro per il 2021. Un caso che dimostra che anche altri paesi del Sud Europa hanno compreso che la logica economica “ombrellone e mattone” non può reggere in un mondo globalizzato. 

C’è sempre stata in Italia una scarsa propensione a investire in conoscenza, sia nel pubblico che nel privato. Dopo la crisi finanziaria del 2008 e quella dei debiti sovrani del 2011 e ora, alla luce della tremenda esperienza della pandemia di Covid-19, dovrebbe essere maturo il tempo in cui la politica riconosca il valore culturale del metodo scientifico per la vita pubblica. Un paese ad alto costo del lavoro e bassa natalità come l’Italia si deve convincere che l’unico modo per raggiungere una crescita economica stabile intorno al 2-3 per cento è un massiccio investimento in istruzione e ricerca e la creazione di un network di trasferimento tecnologico che consenta alla ricerca industriale di sfruttare il know-how e le infrastrutture della ricerca pubblica di base e soprattutto applicata.

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