Nel secondo giro di consultazioni appena terminato con i gruppi politici, il presidente incaricato Mario Draghi ha condiviso i punti essenziali del suo governo: europeismo, atlantismo, ambientalismo. È tornato sul piano vaccinale, sulla necessità di proteggere le persone fino a quando la pandemia non sarà alle spalle, sulla creazione di nuovi posti di lavoro grazie a massicci investimenti pubblici. Ha citato la riforma della pubblica amministrazione, del fisco e della giustizia civile. L’unico tema su cui ha iniziato ad entrare nei dettagli è stato la scuola.

È un segnale importante: dimostra quanto consideri le nuove generazioni la priorità della sua azione di governo e rivela da quali considerazioni intenda partire. Il disagio psicologico e i debiti formativi accumulati dagli studenti; e il conseguente recupero da fare su entrambi questi fronti, sulla socialità e sugli apprendimenti, ponendo la questione di come organizzare le attività per il resto dell’anno scolastico in corso e di come avere il primo settembre tutti i docenti in classe, evitando ritardi di settimane nell’assegnazione di molte migliaia di cattedre.

Il calendario

A sentire le parole “recupero” o “tempo perso” molti docenti hanno già reagito dicendo che non ci sarebbe nulla da recuperare, dal momento che loro hanno comunque lavorato, e molto, nonostante le scuole chiuse per lunghi periodi di lockdown. Noi pensiamo che gli insegnanti abbiano fatto quest’anno sforzi enormi, senza risparmiarsi, in condizioni difficili e spesso in mancanza di tutta l’assistenza che sarebbe servita da parte delle istituzioni, scolastiche e ministeriali. Ciò non toglie che, nonostante i tentativi di contenimento, la pandemia abbia avuto sugli studenti impatti profondi. Per i prolungati periodi di scuole non in presenza, per le condizioni enormemente diverse degli studenti a casa, perché la didattica a distanza nonostante tante buone eccezioni non è stata – né era ipotizzabile che lo fosse, ovviamente sul lato della socialità ma anche da quello dell’apprendimento – all’altezza della didattica a scuola. Va detto pure che il risultato di decisioni differenziate per grado di istruzione ha prodotto una situazione molto diversa per la primaria e la secondaria, così come da regione a regione. Per questo è importante che il nuovo governo capisca rapidamente come contrastare la povertà educativa e sostenere gli studenti con un dialogo molto mirato con presidi e corpo docente – scuola per scuola – che parta dai bisogni specifici di ogni singola comunità scolastica. «Come stanno gli studenti?», «cosa e quanto hanno perso in questi mesi che possiamo provare a restituire?», «di che cosa ha bisogno quella singola scuola?», «quali risorse, strumenti, formazione, e cura offrire a quel preside e agli insegnanti di quella singola scuola?»: sono queste le domande a cui dobbiamo rispondere per accompagnare il recupero e garantire l’affermazione degli studenti.

Tutto questo presuppone anche un’analisi approfondita, per evitare che il dibattito prosegua per impressioni generali e prese di posizione “a prescindere”.

Nello scorso anno scolastico 2019-2020 le prove Invalsi non si sono svolte a causa della chiusura totale delle scuole di ogni ordine e grado. Non ci sono quindi dati sull’impatto del lockdown sugli apprendimenti di studentesse e studenti. Né sappiamo granché sul benessere degli studenti e sul livello di disagio psicologico che stanno affrontando. Nessuno oggi sa come stiano davvero le cose e così, mentre altri paesi hanno realizzato o si stanno attrezzando per realizzare indagini anche molto estese, noi sappiamo che la scuola si è ammalata, ma senza una diagnosi che ci dica quanto e come si è ammalata (in maniera diversa da territorio a territorio, e persino da scuola e scuola), le neghiamo la possibilità di essere curata.

Lo diciamo chiaramente: ci appassiona poco andare a ricostruire il passato, le decisioni giuste e quelle sbagliate del ministero, il modo in cui alcune scuole le hanno recepite meglio di altre, i territori in cui le istituzioni locali hanno collaborato con gli uffici scolastici e gli altri in cui questo non è avvenuto. Ci sta a cuore capire a che punto siamo oggi per sapere dove intervenire domani, con l’obiettivo di unire tutta la scuola e le famiglie attorno ad un grande “Recovery Plan educativo” che si concentri sul lavoro da fare nei mesi a venire, con un mix di azioni puntuali ed altre più strutturali, che aiutino a trasformare in meglio la scuola per quando la pandemia sarà alle spalle.

In tutto questo, noi non pensiamo che far fare le prove Invalsi costituisca solo un ulteriore elemento di stress che si sommerebbe ai tanti già sopportati da docenti, genitori, e studenti stessi. Siamo invece convinti del contrario. Riteniamo che le prove Invalsi – lungi dal produrre improbabili graduatorie tra scuole o tra docenti – restino fondamentali per fotografare in che misura la scuola sia riuscita in questo periodo a mantenere il suo ruolo: sviluppare capacità e saperi nelle studentesse e negli studenti. Per capire cosa sia successo, quale impatto la mancanza di scuola abbia prodotto, e per restituire quindi a tutti – parlamento e governo, uffici territoriali del ministero, prèsidi, docenti e genitori – le informazioni necessarie per intervenire, ciascuno al proprio livello e per il proprio ruolo, in modo mirato e consapevole; sapendo che l’obiettivo è lo stesso per tutti: analizzare la situazione, valutare cosa fare, adoperarsi per contrastare la povertà educativa, ridurre i divari, e in definitiva far sì che la scuola sia un luogo di opportunità ed emancipazione come chiede la nostra Costituzione, e non un luogo dove, paradossalmente, si congelano e talvolta persino si amplificano le disuguaglianze.

Il monitoraggio

Cosa proponiamo, allora? Il mantenimento delle prove, nella loro funzione di monitoraggio, rinunciando, per l’ultimo anno della scuola media e per il secondo anno delle superiori, ad ogni comunicazione successiva agli studenti che potrebbe essere vissuta come stressante o punitiva.

Proponiamo di restituire tutti i risultati delle prove solo ai docenti, ai presidi e all’intera comunità educante – composta di tutti coloro che hanno siglato patti educativi di comunità. Quello che conta è che le scuole siano messe in condizioni di sapere “quali studenti” si troveranno in classe da settembre, come già avviene per le prove Invalsi fatte al secondo e quinto anno delle elementari. E questo è indispensabile per progettare e programmare i modi più idonei per accompagnare e sostenere le alunne e gli alunni che già prima della crisi vivevano situazioni di fragilità o erano a forte rischio di fallimento educativo.

Questa impostazione potrebbe consentire agli studenti di non caricarsi dello stress delle prove in un anno in cui sono già stati molto provati, e al tempo stesso alle scuole e al ministero di disporre dei dati che servono per capire l’intensità e la natura dei debiti formativi che sono stati accumulati e come intervenire con un “Recovery Plan educativo” mirato sulle necessità di ogni singola scuola. I dati potrebbero inoltre essere resi pubblici, non a livello di singola scuola, ma aggregando con un criterio i comuni piccoli e disaggregando le grandi città così da restituire un quadro utile anche per programmare possibili interventi specifici legati al Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Abbiamo un’occasione storica, le prime parole del presidente incaricato Mario Draghi lasciano ben sperare sulla priorità che il nuovo governo darà alla scuola. Non sprechiamola, facciamo tutti uno sforzo di ascolto e dialogo, rifondiamo l’Italia sul diritto all’istruzione.

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