Lo scorso maggio, la Corte europea dei diritti umani, nell’emettere quattro nuove condanne nei confronti dell’Italia a causa delle emissioni dell’ex Ilva, ha dichiarato che lo stabilimento siderurgico continua «a rappresentare un rischio per la salute» dei suoi operai e dei cittadini di Taranto.  E ha sollevato pesanti ombre sulla «messa in atto effettiva del piano ambientale».

Il governo e la salute

Il 18 dicembre le centraline del quartiere Tamburi, a ridosso dell'ex Ilva, hanno rilevato picchi preoccupanti di benzene cancerogeno. La risposta del governo di Giorgia Meloni è arrivata qualche giorno dopo con il decreto salva-Ilva che ha assicurato ad Acciaierie d'Italia 680 milioni di euro e un nuovo scudo penale per i dirigenti, sancendo l’impossibilità di fermare gli impianti anche in presenza di sequestri da parte della magistratura. Un decreto che forza le leggi italiane ed europee.

Lo stato ce la sta mettendo tutta per tenere in piedi lo stabilimento, a discapito della salute di lavoratori e cittadini. Del resto, non è la prima volta che un governo emana un decreto che a Taranto giustamente chiamiamo "salva Ilva".

Nel 2015, per fare un esempio, nel nome dei cosiddetti interessi strategici nazionali, il governo aveva assicurato la continuità della produzione malgrado l’autorità giudiziaria, dopo un incidente nell’area di un altoforno che costò la vita a un operaio, avesse disposto un sequestro. Tre anni dopo, la Corte costituzionale avrebbe dichiarato illegittima quella norma. Evidentemente i pronunciamenti della Consulta sono carta straccia per chi governa, dato che il nuovo decreto rilancia il divieto di stop agli impianti. Così come carta straccia sono le leggi europee.

In contrasto con l’Ue

L’articolo 8 della direttiva Ue sulle emissioni industriali, per esempio, indica chiaramente che «in caso di pericolo per la salute umana o ripercussioni serie ed immediate sull’ambiente, venga comunque sospeso l’esercizio dell’installazione». Un’altra direttiva, quella sulla responsabilità ambientale, prevede l’obbligo di riparazione del danno per il gestore di un impianto industriale: non rischiando mai l'arresto della produzione, tale gestore non avrebbe interesse ad avviare misure di riparazione.  Infine, c’è la misura dell’immunità penale concessa ai gestori dell’impianto e ai loro delegati, che vìola il principio del “chi inquina paga”.

A fronte di tutti questi elementi, ho presentato un’interrogazione alla Commissione europea affinché si pronunci sul decreto. Ma nutro poche speranze che Bruxelles si esprima condannando l’Italia. D’altra parte, la procedura d’infrazione avviata dall’esecutivo Ue per l’inquinamento dell’acciaieria di Taranto è ferma da anni. Il passo successivo dovrebbe essere il deferimento alla Corte europea di giustizia, cosa che la Commissione si guarda ancora bene dal fare.

La risposta alla mia interrogazione

Rispondendo a un’altra mia interrogazione, poco meno di un anno fa, Bruxelles ha sostenuto che la procedura è bloccata perché il piano ambientale per il sito di Taranto starebbe facendo progressi e sarà completato entro l’agosto 2023. Mi piacerebbe sapere quali siano questi “progressi”, e sarò curiosa di respirare l’aria della mia città alla fine della prossima estate. Magari sono io che pecco di pessimismo, ma ho l’impressione che l’inquinamento continuerà ad ammorbarci.

La verità è che gli interessi della siderurgia, e quelli connessi a essa, per molti sono più importanti della vita dei cittadini e dell’ambiente. Lo si è visto anche con la riforma annacquata dell’Ets, il meccanismo di scambio di quote di emissione dell’Ue. In base alle nuove norme, l’industria pesante e quella energetica continueranno a ricevere permessi gratuiti di inquinare fino al 2034. Queste “quote” sono dei regali inaccettabili che di fatto, anziché ridurre le emissioni, spingono i big del fossile a non investire nella transizione.

Favori alle grandi imprese

Non solo: grazie ai permessi gratis, le grandi industrie riescono a crearsi un business parallelo niente male: secondo uno studio di Carbon market watch, tra il 2008 e il 2015 ArcelorMittal avrebbe incassato 1,2 miliardi di euro rivendendo le quote gratuite non usate (non perché le sue acciaierie europee siano diventate più virtuose, ma perché ha chiuso alcuni siti nell’Ue per spostare la produzione fuori dall’Ue).

Lo stabilimento di Taranto, dunque, continuerà a ricevere questi permessi gratuiti di inquinare.

Ma nonostante ciò intanto non passa settimana che i gestori dell'ex Ilva non piangano miseria: da una parte producono emissioni nell'aria, dall'altra accumulano debiti verso le aziende dell'indotto, molte delle quali messe alla porta lo scorso autunno.

Rosa D’Amato è un’eurodeputata del gruppo Greens/Efa

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