Tre giorni a Minsk e il mondo ti cade addosso nella sua immensità di coraggi e nella sua brutalità fatta di tirannie e repressioni odiose. Quando venerdì scorso a Fiumicino hanno impedito a Laura Boldrini ed Emanuele Fiano di imbarcarsi perché, al pari di Lia Quartapelle, già segnalati, con Andrea Orlando abbiamo deciso di usare la “distrazione” del regime nei nostri confronti e di partire ugualmente.

Che invidia per chi scrivendone sa comunicare l’intensità e il dramma di un popolo. Non ne sarò capace però se ci provo è perché le donne e gli uomini che abbiamo incontrato ci hanno chiesto di raccontare, fare conoscere il loro dramma anche come un modo perché maturi il senso esteso di una solidarietà.

In Bielorussia c’è un regime oppressivo e torturatore. Aleksandr Lukashenko è al potere da ventisei anni, per molto tempo ha goduto del consenso di un paese che doveva ricostruirsi. È stato il padre-padrone dell’amministrazione, della magistratura, della polizia, della tv di stato, delle carriere e del parlamento. In cambio offriva una qualche sopravvivenza dello stato sociale tacitando e reprimendo le opposizioni.

Qualcosa però a un certo punto non ha più funzionato e di quello scarto oggi Minsk è la fotografia più evidente e inquietante. In apparenza una città “distesa”. Ma poi? Ma dentro? Ma poi, e dentro, ci trovi la stratificazione di abusi, privilegi, ingiustizie, e ancora il dramma del Covid-19 e la crisi fino alla scintilla scattata ora in tutta la sua carica di ribellione.

Racconti terribili

Come un orologio che da tempo indicasse un’ora falsata sino a quando una bimba ha svelato quel che molti sapevano, che l’ora era un’altra. Quella bimba ha avuto il profilo di un popolo offeso dalla truffa elettorale del 9 agosto e che questa volta si era organizzato in gruppi spontanei. Un popolo organizzato anche piegando la scheda in un certo modo.

Comunicando via social avevano conteggiato la vittoria di Svetlana Tikhanovskaya, invece il risveglio brusco è stato quello di urne sparite, seggi bloccati con verbali distrutti, dati truccati sino all’annuncio-provocazione di un dittatore che sarebbe stato votato dall’80 per cento della popolazione.

A quel punto l’indignazione è esplosa e la rete l’ha rilanciata e moltiplicata, convocando la prima manifestazione accompagnata da migliaia di fermi, arresti, pestaggi, 7.000 carcerazioni solo nei primi giorni. Abbiamo ascoltato racconti terribili. Una dottoressa accorsa per prestare soccorso e arrestata, testimonianze di violenze, stupri, ricatti che usano la minaccia sui figli.

Cosa deve succedere ancora a due ore e mezzo di volo da noi, dalla mia Milano? Forse solo ascoltando, vedendo, capisci il senso più vero della politica, la difesa ovunque dei diritti umani e della dignità di ciascuno. Sono loro, a Minsk, che in questo momento ci insegnano qualcosa: non si fanno chiamare “dissidenti” perché si sentono maggioranza.

Si definiscono “protestanti”, nel senso letterale di essere quelli della protesta per i diritti politici. O anche “resistenti” di una rivoluzione per la libertà di ciascuno. Quello in Bielorussia è un movimento pacifico, plurale, creativo nell’uso delle tecnologie. Hanno figure riconosciute a partire da Svetlana Tikhanovskaya, Veronika Tsepkalo e Maria Kolesnikova, le tre donne simbolo della protesta.

Senza una ideologia predeterminata usano con sapienza i social, il passaparola, la street art, dispongono la merce nelle vetrine per messaggi impliciti, tante donne indossano l’abito bianco.

Nel salutarci, alcuni tra quelli con maggiori responsabilità ci hanno detto: «Se domani dovessi finire in carcere, cercate un’altra o un altro amico». Tentavo di interpretare quella compostezza e forza.

Domenica la manifestazione mi ha dato una risposta: un fiume fatto di tanti affluenti dai vari quartieri, il sentimento che li muove è in quel messaggio, insieme (together) per reinventare democrazia e indipendenza.

Come? Donne e uomini, ragazze e ragazzi neppure nati al tempo, mi dicono. «Siamo un nuovo ’68». Altri semplicemente si battezzano bielorussi, innamorati del loro paese. Io dico che sono la libertà e allora che il governo italiano incontri le loro leader, che l’Europa usi sanzioni più severe, che si liberino tutti i detenuti politici, che si facciano libere elezioni con osservatori internazionali, che si costruiscano diplomazie e aiuti. Si deve fare tutto tranne una cosa, operare una rimozione della tragedia che lì si consuma perché quello sì equivarrebbe a una rimozione dei nostri valori più profondi. E questo per nessuna ragione ci è consentito farlo.

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