È forse persino inevitabile che all’indomani della chiusura (dolorosa e ingloriosa) del governo Draghi, prevalga in molti commenti e in molte dichiarazioni il piano emotivo dei sentimenti e dei risentimenti.

Occorrerebbero però razionalità e lucidità, perché in pochi giorni dobbiamo attrezzare un’analisi, un programma, una tattica elettorale, una strategia politica.

Senza analisi e con una prospettiva fragile, non si va lontano. Senza programma, non si capisce chi sei, chi vuoi rappresentare, cosa vuoi realizzare.Sbagliando formazione, si perde la partita.

Partiamo dall’analisi. Nessuno può negare che il Movimento Cinque Stelle si sia assunto la responsabilità di fare cadere il governo, di andare a elezioni anticipate e dunque di esporre il Paese a una condizione di estrema difficoltà, alla vigilia della legge di Bilancio e nel mezzo di scadenze cogenti per il PNRR.

Facendo mancare mercoledì in Senato il voto di fiducia insieme a Lega e Forza Italia ha scelto questo esito. Malgrado tutti gli sforzi fatti per trattenerlo, nostri e di quegli stessi ambienti sociali e sindacali in nome dei quali il Movimento aveva giustamente alzato la voce nelle settimane precedenti, Conte ha deciso di rompere e - dopo la scelta del centro-destra di non votare la risoluzione Casini - ha scelto di condividere fino in fondo con la destra questa grave responsabilità. Avrebbe potuto fermarsi un metro prima del precipizio. Avrebbe dovuto farlo a maggior ragione nel pomeriggio di mercoledì, scaricando su Salvini e Berlusconi la responsabilità dello strappo.

Detto questo, mi chiedo: ma davvero è tutto qui? Davvero non vanno cercate anche altrove le responsabilità dello sfaldamento progressivo del patto di maggioranza? Io credo vadano cercate altrove: nella destra in primo luogo. Che con Salvini e Berlusconi è ormai appendice di Giorgia Meloni e che ha anteposto a tutto, ancora una volta, i propri interessi e le proprie convenienze elettorali. Ma queste responsabilità vanno cercate anche in chi non ha voluto mediare, in chi ha fomentato e provocato passo dopo passo una scissione tra i Cinque Stelle e in chi - nel momento in cui Conte proponeva un’agenda di priorità, anche sociali - non ha raccolto e sostenuto istanze che, in larga parte, erano giuste.

Dunque consiglierei di affinare la lettura di quel che è successo, di evitare banalizzazioni e di abbandonare l’eterna ricerca del capro espiatorio.

Secondo punto. Che governo è stato quello di Mario Draghi? Anche su questo propongo più onestà intellettuale e più equilibrio. Il governo Draghi è stato un governo di unità nazionale, nato per iniziativa del Presidente della Repubblica con un mandato preciso e in un contesto eccezionale (i fondi europei, la crisi pandemica). Non un governo politico e non un governo di sinistra, entrare a far parte del quale è stata tuttavia una scelta giusta, che Articolo Uno ha assunto per difendere i risultati ottenuti dal governo Conte II e per darvi continuità. Ci siamo riusciti? Ci sono riuscite le forze progressiste che hanno lavorato per quell’obiettivo?

In buona parte sì: si sono raggiunti gli obiettivi previsti nel PNRR, si è intervenuti con decreti di sostegno e di aiuti per lavoratori, famiglie e imprese che hanno dato sollievo sia nei primi mesi sia dopo l’ulteriore crisi legata all’esplodere della guerra in Ucraina e alle sue ripercussioni sul prezzo delle materie prime. In molti passaggi si sarebbe dovuto fare di più e anche di meglio: sui terreni della riforma fiscale, della concorrenza e dei servizi pubblici locali, sulle mille faglie di precarietà e di fragilità cui non si è riusciti o non si è voluti fino in fondo intervenire. Tra le molte cose, personalmente ritengo che la scelta di inviare armi al governo Zelensky sia stato un grave errore, perché i fatti dimostrano che all’intensificazione della guerra non ha corrisposto alcun percorso diplomatico serio ed efficace.

Ma a chi ritiene che il governo Draghi sia stato solo una sciagura, chiedo: avremmo dovuto rompere il patto con Pd e Cinque Stelle, non raccogliere l’invito del Presidente Mattarella e non entrarvi? È il ragionamento che fanno in molti, compresi alcuni che ora cercano o si predispongono a una alleanza politico-elettorale con chi la croce di quel governo se l’è caricata responsabilmente dal primo giorno. Oppure avremmo dovuto far mancare la fiducia nel corso di questi mesi o, persino, come qualcuno ha scritto, nel corso di queste ultime giornate, sostenendo fino in fondo la linea Conte? A me non sarebbe parsa - lo dico con grande rispetto per le opinioni di tutti - una scelta particolarmente intelligente.

Ma atterriamo nel presente, perché nelle ore scorse il governo Draghi è finito, questa parentesi nella Storia della nostra Repubblica si è chiusa, e nelle prossime ore comincia la campagna elettorale.

In una campagna elettorale occorrono due cose: i contenuti, cioè un programma, e una collocazione, cioè una lista e - con questa legge elettorale - un’alleanza elettorale per i collegi uninominali.

Il programma noi lo abbiamo già: è il frutto del lavoro di questi anni e di questi mesi dei nostri dipartimenti di lavoro. Non è l’agenda Draghi, che non è chiaro cosa significhi senza Draghi e oltre Draghi. Ma è un’agenda laburista. È un programma che mette al centro innanzitutto il lavoro: una legge sulla rappresentanza, il salario minimo, una politica industriale e per l’occupazione degna di questo nome coerente con la transizione ecologica necessaria. A fianco del lavoro, i beni comuni: la sanità pubblica, da difendere e rafforzare ulteriormente, come ha fatto il Ministro Speranza in questi anni; la scuola pubblica, l’Università e la ricerca; i servizi; un sistema di welfare universale. E poi il fisco, cioè lo strumento della equità e della redistribuzione, in nome di un principio di progressività che è l’esatto opposto di ciò che viene proposto da chi parla di aliquote uniche e sgravi a vantaggio dei più forti e a carico del lavoro dipendente e dei pensionati. Ed è un programma, se posso ribadirlo, che in politica estera parla la lingua della pace e del disarmo, nell’ottica di un mondo multipolare e di un’Europa autonoma e indipendente.

Quando diciamo che agitare lo spauracchio della destra alle porte non è sufficiente ed occorre mettere in campo la forza e la credibilità di un progetto di sinistra, legato al lavoro e ai suoi bisogni, popolare, radicale e di governo, diciamo questo: che  abbiamo un programma e con quello vogliamo parlare nei prossimi due mesi al Paese. Abbiamo cioè un elenco di cose da fare, puntuali e concrete, per aggredire lo scandalo delle diseguaglianze e delle precarietà.

Quanto alla lista e alla collocazione il punto mi pare semplice. Al nostro recente congresso abbiamo scommesso su un quadro che è oggi fortemente a rischio: l’idea del campo progressista (dal Pd ai Cinque Stelle) e dentro quel campo l’idea di un fatto politico nuovo ancorato al socialismo europeo. Una federazione, un soggetto, una proposta nella quale Articolo Uno avrebbe portato la sua identità, il suo contributo e i suoi candidati.

Ora quale scenario si apre? Noi puntiamo a confermare questo schema. A salvare l’alleanza con i Cinque Stelle, aprendo - oltre al campo progressista - a un ragionamento che consenta, sui collegi uninominali, di unire le forze progressiste con le altre forze di centro, civiche e liberal-democratiche che dovessero contrapporsi alla destra di Meloni e Salvini.

Se dovesse implodere il campo progressista, non certo per nostra responsabilità, occorrerebbe capire quali prospettive possibili rimarrebbero aperte.

La mia opinione è che con ancora più cogenza, in quel caso, emergerebbe il bisogno di una lista progressista e al suo interno del punto di vista autonomo della sinistra laburista; del contributo di Articolo Uno e delle sue idee. Perché la fase dell’unità nazionale è finita, la crisi sociale continua, anzi: morde di più. E le ragioni della sinistra sono e sarebbero ancora più urgenti.

© Riproduzione riservata