«Siamo noi, siamo in tanti, Ci nascondiamo di notte Per paura degli automobilisti, dei linotipisti Siamo i gatti neri, siamo pessimisti,Siamo i cattivi pensieri E non abbiamo da mangiare Com'è profondo il mare».

Così cantava Lucio Dalla nel settembre del 1977. Mi è venuta in mente questa canzone nel leggere i vari commenti seguiti alla sconfitta del Partito democratico di domenica, commenti che descrivono un partito che invece di nuotare sfidando le onde del  mare aperto si è lasciato andare andando a fondo.

Senza nulla voler togliere o giustificare, una sconfitta è una sconfitta, credo che prima di suonare un de profundis collettivo ci si debba porre una domanda: vogliamo davvero rinunciare a rifondare le ragioni d’essere della nostra politica o vogliamo ritrovare coraggio, orgoglio e ragion d’essere?

Io credo si debba ripartire da queste ultime parole. Ma per farlo per davvero dobbiamo convincerci che non bastano più le vecchie parole d’ordine o un po’ di trucco per mascherare le solite facce.

Il Partito incompiuto

Dobbiamo ripartire da quello che già Edmondo Berselli nel 2008 chiamava un “partito incompiuto”: un partito nato per governare in uno schema maggioritario e che ora si trova catapultato, per una inerte eterogenesi dei fini, in uno schema da “repubblica dei partiti” ma senza più quei partiti e senza più nemmeno un governo.

Una sfida all’apparenza impossibile, ma che se diamo già per persa ci costringerà ad essere per sempre subalterni all’emotività politica del momento.

Il vostro giornale titolava mercoledì in un articolo che il Partito democratico «con questi collegi non può vincere». Ma se non si vince la colpa può essere di come è fatto un collegio? Evidentemente no.

Non è la semplice geografia di un collegio a fare la differenza, ma l’analisi della sua base sociale e la proposta politica che si mette in campo. Lo studio dei tanto citati territori. Che non significa mettersi solo a studiare libri o articoli di giornale.  Significa ascoltare chi quei territori li vede ogni giorno e con le persone che vivono quei territori ci fa i conti tutte le mattine.

«Ripartiamo dai territori» è infatti una delle frasi che più spesso si sentono in queste ore. Ma cosa vuoi dire? Cosa sono i territori? I territori sono le persone, le loro storie, le loro vite, le loro ansie e le loro paure. E sono queste che vanno conosciute, studiate, ascoltate, accolte allungando la mano per accompagnarle, non per puntare il dito. Ripartire dai territori significa usare umiltà ed empatia, conoscerne le disuguaglianze e con responsabilità e serietà provare a governare dando risposte concrete e credibili.

Ripartire dai territori significa portare questo approccio dalla periferia al centro, riconnettendo le mille fratture del nostro paese. Le fratture economiche e quelle sociali, quelle del lavoro, del welfare, dell’impresa, della scuola.

Risposte

Significa trovare una risposta concreta per le famiglie che si districano tra figli e lavoro, significa sapere che la crisi energetica rimette in discussione intere filiere delle nostre piccole e medie aziende manifatturiere del made in Italy, significa conoscere con nome e cognome quelle persone che vivono con 900 euro al mese. Piccoli e grandi problemi che troppo spesso affrontiamo cercando di inquadrarli dentro categorie

Significa usare un linguaggio semplice, popolare e smettere di confondere il popolare con il populista. Riconnettere spazi, luoghi e tempi della vita reale con quelli della politica. Questa deve essere una delle funzioni principali del nostro partito. Ricucire.

Ritrovare coraggio e orgoglio significa anche evitare un’altra frase fatta di queste ore: ripartiamo dalle alleanze.

Certo, in questo nuovo assetto post voto capire chi vogliamo che siamo i nostri compagni di viaggio è fondamentale. Ma la discussione sulle alleanze non può svolgersi nel vuoto politico.

Discutere di alleanze senza prima riempire il vuoto politico significherebbe di fatto  mettere all’asta del miglior offerente il nostro partito. E non è questo quello che deve fare una classe politica, salvo non voglia rinnegare semplicemente se stessa.

Per riempire quel vuoto non serve un altro leader di turno scelto fuori o dentro ad un gazebo, che ci dica cosa dobbiamo fare, serve una fase profonda, come il mare, di riflessione, di decisione, di coinvolgimento degli iscritti e di quel pezzo di società civile, di rappresentanza della società, che ancora esiste e lavora ogni giorno per fare  in modo che il vuoto di idee, emozioni ed ideali pervada tutto.

Idee e persone.

Classe dirigente e congresso.

Una classe dirigente  che non può essere la semplice riproposizione di se stessa sotto altre forme. Cosi come non può nascere da un semplice elenco di figurine.

Ritornare  ad avere credibilità  significa questo: una classe dirigente non di singole funzioni  ma che nasca da un progetto. Una classe dirigente che sappia stare tra le perone e che non rappresenti ad esse un semplice “eterno ritorno” buono per tutte le stagioni.

Ma per fare questo ci vogliono le idee, appunto. Bisogna riempire il vuoto, non chiamando le persone semplicemente a votare in un rito congressuale stanco e solitario, ma aprendosi in un percorso partecipativo e rigenerativo che dia un senso di appartenenza, speranza, che torni a dare una senso alla politica e quindi anche al voto. Ricucire, riconnettere, ricostruire.

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