Nell'incessante ricerca su cosa debba essere e fare la sinistra oggi, l’intervento di qualche giorno fa di Goffredo Bettini apre a riflessioni non banali. Innanzitutto l’accento sul soggetto da costruire: senza partito non c’è che spappolamento. Il richiamo a una realtà che sembra del passato (il partito strutturato) non deve sorprendere: non si tratta soltanto di ricreare uno strumento ma di ricollegarsi a universi umani e sociali da rappresentare, oggi sfuggenti, destrutturati ed opachi.

Per ciò che concerne la figura del militante, oggi così rara, secondo Bettini esiste un aspetto umano e storico che incarna la forza politica in uomini e donne concreti. Il dirigente del Pd racconta della sua ricerca giovanile di «una solida forma dell’anima» che si trasformò nell’adesione al Pci come «casa interiore»: «un’attrazione fortissima, fattore d’ordine, di disciplina, di sentimenti alti e disinteressati, di continuo apprendimento dal presente e dalla storia».

Sono parole che ci rinviano ad un’epoca non poi così lontana, quando i partiti erano molto più che espedienti per il potere ma rappresentavano casa, scuola, formazione, amicizia, discernimento, educazione. È la stessa ricerca interiore che ha animato i cattolici nella Dc, i socialisti nel Psi e tanti altri impegnati nella ricostruzione del paese. Sognavano e vivevano tutto questo, mescolandolo ovviamente agli aspetti prosaici della politica, più utilitaristici o pragmatici come la gestione, l’organizzazione, la propaganda o l’arte di amministrare e governare.

22/02/2020 Roma. Assemblea nazionale del Partito Democratico all Auditorium della Conciliazione. Nella foto, Goffredo Bettini.

I partiti del dopoguerra, quelli della cosiddetta Prima repubblica così tanto oggi disprezzati, ci hanno regalato la democrazia repubblicana e la Costituzione. Non sono stati gli alleati o gli americani a farlo, né altre forze esterne, né la tradizione liberale pre-fascista: sono stati i partiti dell’arco costituzionale. [TITOLINO]

Se di spappolamento della società di parla, la sofferenza tuttavia non è solo dei pochi militanti rimasti che non riescono più a compiere quel “corpo a corpo” con il popolo, come scrive. La sofferenza dell’essere liquidi è nella società stessa. Non si passa senza patimenti dall’essere una classe riconoscibile e compatta (ad esempio la classe operaria) a un pasticcio insipido e sfuggente, incomprensibile anche a chi ci sta dentro, liquefatto dentro la globalizzazione sociale.

La società è spappolata

Quando a sinistra ci si ripete ansiosi che «siamo ormai lontani dalla gente», si deve rammentare che il maggior peso e tormento di tale situazione grava sulla gente stessa che non ha più punti di ancoraggio e viene trascinata nel flusso incontrollabile della globalizzazione senza sapere dove va. Per questo viene istintivamente attratta da chi dice: «Riprendiamo il controllo di noi stessi». E a dirlo oggi sono soprattutto le destre sovraniste. La sinistra deve quindi trovare il suo modo per dire «riprendiamoci il controllo», smettendo di andare dietro intimidita al liberalismo ormai svuotato di valori. Gli autoritarismi accettano i principi liberali in economia senza discutere, rifuggendo quelli democratici. Ciò che la sinistra europea dovrebbe dire è «riprendiamoci il controllo democratico».

I problemi che viviamo oggi non sono del tutto nuovi: durante tutta la Prima repubblica c’è stata una vivace resistenza populista e retrograda allo spirito repubblicano. Populismi e sovranismi italici (anche i neofascismi, con buona pace di chi li nega) hanno vecchie radici. Dall’Uomo Qualunque in avanti, in Italia c’è sempre stata una voce pronta a denigrare la politica, a sostenere l’idea dell’uomo forte o del “grande ragioniere” come diceva Guglielmo Giannini, oppure dell’ambiguo terzaforzismo.

Sono sempre esistiti l’antipolitica, l’antipartitismo, le tentazioni individualistiche, localiste o regionaliste (ben prima della Lega bossiana), lo sprezzante inciucio per ogni compromesso, il benaltrismo, l’arroganza patriottarda, la rottamazione fasulla, il leaderismo o la ricerca del capro espiatorio. Così come c’è sempre stata -anche a sinistra- la tentazione di contrapporre diritti individuali a quelli collettivi, quella dell’elitismo, della rabbia e financo della violenza.

Ma i partiti dell’arco costituzionale hanno resistito per decenni a tali derive, mediante un’incessante opera di cultura e politica (mai disgiunte), nobilitando la migliore eredità culturale e storica del nostro paese. Davano spessore –con tutti i loro limiti e nelle rispettive differenze- ad una politica pensata, progettata, di servizio e di pubblica utilità, svolta nell’interesse generale. Questo almeno fino al tornante degli anni Novanta.

Le diseguaglianze

Cosa significa dunque riprendere il controllo democratico? Innanzitutto rimettere a tema le diseguaglianze. Si tratta di un terreno ambiguo perché basato sui confronti che, com’è noto, non rappresentano mai un termine assoluto. Tuttavia il fatto che le diseguaglianze siano aumentate e che buona parte dei ceti medio e medio-basso si senta defraudata, è una realtà. Dal momento che la democrazia si basa proprio sul consenso del ceto medio nella sua interezza (per i ricchi e i poveri non cambia quasi nulla), la riduzione delle diseguaglianze diviene oggi un’emergenza democratica. Riprendere il controllo significa offrire la propria versione di superiorità della politica sulle ragioni dell’economia liberale, ormai fallimentari e stantie. Lo sappiamo tutti: rispondere ad ogni crisi con “più crescita!” non serve perché non basta.

Per la sinistra italiana il tema è semplice: il reddito d’inclusione è arrivato troppo tardi, la società civile organizzata lo chiedeva da più di un decennio. Disprezzare quello di cittadinanza non è saggio. Quello di emergenza è complicato da ottenere. Vergognarsi di sussidiare chi non ce la fa significa non vedere l’assenza di pari opportunità di partenza. La società meritocratica è un fake. Occorre immergersi in tale contradditoria questione con una politica precisa di lungo termine. Ci sono già sul tavolo proposte che la sinistra può fare sue e sulle quali convergere con il M5S.

In secondo luogo trovare le parole per rivolgersi ai somewhere e non solo agli anywhere (i tanti e i pochi, direbbe Nadia Urbinati). I primi sono radicati, nostalgici, tradizionalisti, hanno perso molto, sono rabbiosi, non possono spostarsi e odiano tutto ciò che è straniero. I secondi sono cosmopoliti, aperti, pronti a vivere ovunque, moderni, libertari e anti-tradizionali. In ogni paese occidentale tale frattura va allargandosi e solo la destra populista vi si introduce, ricavandone sostegno senza produrre proposte convincenti. È la politica della Brexit, dei forgotten di Trump, dei nazionalisti alla Orbàn o dei sovranisti. Questo film lo abbiamo già visto tra le due guerre mondiali.

La sinistra deve smettere di sentirsi superiore a tale dilemma e aprire un dialogo con gli “spregevoli”, per usare il termine con cui li definì Hillary Clinton, perdendo le elezioni. Nelle periferie ma anche nelle zone periurbane e interne è pieno di gente così. Sono coloro che rifiutano di sentirsi chiamare razzisti ma non hanno le parole per esprimere il senso di ingiustizia che sentono e finiscono per prendersela con gli ultimi, con gli immigrati o i rom. Sono i penultimi. La sinistra deve inventare un modulo di dialogo permanente con costoro. Tale conflitto si può affrontare con un grande piano di revisione generale dell’habitat e dell’abitare: città, quartieri, zone interne rurali o periferiche da riconnettere con l’obiettivo di offrire a tutti le stesse possibilità almeno in alcuni campi. Il piano digitalizzazione dovrebbe partire da qui.

La crisi del sistema liberale

]Terzo: affrontare senza timore il conflitto globale tra sistemi che è anche un conflitto sui principi. Liberalismo e liberismo sono in crisi e vanno radicalmente rivisti senza lasciarsi intimidire. Se la sinistra vuole avere un futuro deve interpretare il conflitto contro i sistemi autoritari che sfruttano il libero mercato, non solo dal punto di vista dei diritti umani ma anche dell’efficacia a proteggere la maggioranza. È vero che i diritti umani –in specie quelli delle minoranze- sono essenziali ma oggi non bastano a convincere le maggioranze di molti popoli del mondo (inclusi alcuni popoli occidentali ed europei) impaurite e insicure dalla globalizzazione.

È dura da ammettere: aumentare il numero dei diritti delle minoranze di ogni tipo non porterà l’Occidente a recuperare autorevolezza, a meno che non riesca allo stesso tempo ad essere convincente anche per la maggioranza. Questo è ciò che controbattono i leader autoritari: «Voi occidentali non sapete più difendere i vostri interessi nazionali, cioè quelli delle vostre maggioranze».

La sinistra occidentale deve rendersi intellegibile a tutti e per questo, senza rinunciare o rinnegare alcunché, è necessario si rifornisca di un’idea non frammentaria di futuro per tutti che vada oltre l’assemblaggio “multikulti” o la moderazione pragmatica.

Il sistema liberale non funziona più anche per questo: si è relativizzato in una frammentazione di interessi di rappresentanze sempre più piccole, alla ricerca del “diritto perfetto”, dimenticando il “diritto comune”. Se non c’è diritto comune in cui tutti si riconoscano, allora avremo il “senso comune”, quello delle destre, che caccia il buon senso e pratica la ricerca del nemico.

Da questo dipende anche la costruzione dell’unità politica ed economica europea, inclusa la difesa e sicurezza comuni: proteggersi a vicenda, a prescindere dalle proprie diversità, dentro uno spazio geopolitico ed economico comune, rappresenta un modello assai convincente di convivenza tra maggioranze differenti. Se vogliamo davvero che ogni minoranza sia protetta nei suoi legittimi diritti, dobbiamo convincere la maggioranza, non forzarla.

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