Siamo destinati a nascere, anche se questo comporta, come ogni nascita, un rapporto con il dolore. In questo 2020 appena concluso, il Natale (la cui etimologia significa proprio “nascita”) sembra essere arrivato domenica 27 dicembre all’interno di migliaia di piccole fialette distribuite in Italia e in tutta Europa. Cogliere gli sguardi emozionati dietro le mascherine dei colleghi medici, infermieri, operatori sanitari ed addetti alle pulizie degli ospedali di Codogno e di Lodi, sottoposti alle prime dosi del vaccino anti-Covid dopo essere stati i primi del mondo occidentale ad essere travolti dalla pandemia il 21 febbraio scorso, mi ha fatto dire che allora è tutto vero.

Non si tratta più di una speranza, è realtà. Vittorio Cigoli, professore emerito di psicologia clinica presso l’Università Cattolica di Milano e mio maestro, scriveva a proposito della fiducia che “essa per generare necessita che la speranza affondi le sue radici nel terreno della sofferenza”. Ciascuno di noi in questi mesi ha dovuto fare i conti con la sofferenza nelle sue varie sfaccettature: da quella fisica a quella psicologica, da quella economica a quella sociale. L’estate ci ha illuso e ci ha fatto sperare, ma è bastato l’arrivo dell’autunno e la risalita dei contagi per ritrovarci stanchi e sfiduciati. Dopo la metafora della “guerra contro il Covid” e dell’eroismo di medici ed infermieri in prima linea durante la prima ondata, ora imperversano le immagini che vanno “dalla luce in fondo al tunnel” a “la fine delle tenebre”.

L’importanza di non dimenticare

Con il passaggio al nuovo anno, lasciandoci alle spalle il 2020, è comprensibile guardare ai prossimi mesi con speranza, così come la scorsa primavera guardavamo all’estate. Questo vuol dire da un punto di vista psichico esorcizzare la paura della malattia, evitandola, quando invece è proprio ricordando in maniera consapevole la sua presenza che possiamo continuare a mettere in atto comportamenti virtuosi e responsabili per difendere noi stessi e gli altri. Susan Sontag, scrittrice e fotografa newyorkese, durante la sua esperienza di malattia oncologica e di reportage sulla diffusione dell’Aids nei primi anni Ottanta del secolo scorso, scrive un saggio dal titolo “La malattia come metafora” in cui ci ricorda che ciascuno di noi nasce con una doppia cittadinanza: quella nella regione della salute e quella nella regione della malattia. Nonostante ciascuno di noi voglia avvalersi esclusivamente della cittadinanza della salute, prima o poi, anche solo in maniera temporanea, deve sconfinare nei luoghi della malattia e della fragilità e mentre siamo costretti a soggiornare in questi spazi la fiducia verso i cosiddetti “curanti”, siano essi un trattamento farmacologico, la scienza, la medicina, è fondamentale per non farci sentire estranei e sperduti.

Ricostruire la fiducia

Comunicare quindi fiducia verso la vaccinazione è ora cruciale per il nostro futuro di singoli individui e come collettività, perché diciamocelo, i rischi non sono quelli che derivano dalle ideologie dei No-Vax, ma da quella importante fetta della popolazione cosiddetta “resistente” alla vaccinazione e che non si fida di ciò che gli viene inoculato nel deltoide. Questa dinamica irrazionale e sospettosa che appartiene a tanti di noi ha a che vedere ancora una volta con l’angoscia e il terrore per non avere il controllo su ciò che ci è “estraneo”: questa è una sfida nella sfida per noi che siamo la società del controllo. Avere il controllo sull’estraneo è ciò che ci guida: l’estraneo è l’immigrato, il nuovo, la persona che tossisce, qualcosa che ci viene iniettato e che sentiamo di non poter governare. Non si tratta di sensazioni molto diverse da quelle provate da chi ha paura di volare, restare fermi in coda in autostrada su un viadotto, oppure chiusi in una discoteca affollata; in tutti questi scenari prevale l’impossibilità di governare la situazione e di sentirsi senza via di scampo poiché il controllo non è nelle nostre mani e siamo terrorizzati dall’imprevisto.

Per questo motivo, come scrivevo in un articolo sempre su Domani, tante persone negli ultimi mesi si sono abituate e stanno preferendo l’isolamento sociale all’essere in relazione con l’altro perché visto come estraneo, nemico, imprevedibile. Per questo motivo l’angoscia del controllo e del sospetto (il cosiddetto pensiero paranoico) sono una variabile psicologica fondamentale da considerare nella campagna vaccinale, poiché vaccinarsi non è solo una necessità sanitaria, ma un gesto etico fondamentale per la nostra vita relazionale.

Come rassicurare l’angoscia? Comunicando con modalità chiare e non ambivalenti la fiducia verso la scienza, e che ancora una volta la salvezza individuale passa attraverso quella collettiva.

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