L’ora più buia è l’ora della crisi, quella in cui ogni premier cerca le parole da dire ai suoi concittadini. Lo scorso marzo il presidente del Consiglio Conte, citando Winston Churchill, ha detto: «Questa è la nostra ora più buia, ma ce la faremo». L’estate ci ha illuso che le ore più buie ce le fossimo lasciate alle spalle, ma queste settimane ci riportano a un dialogo con il buio.

Le ore più buie per noi sono anche quelle che di notte si fanno più ricche di materiale onirico. Shakespeare diceva che «siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni», per Calderón de la Barca «la vita è sogno», e infatti sogniamo continuamente: mentre dormiamo, ma anche da svegli.

Ultimamente il sogno a occhi aperti più ricorrente è quello di potere uscire liberi per le strade e rifare le cose che ci appartenevano prima del 21 febbraio scorso. Abbracciarci, andare al ristorante, a casa di amici e parenti, ai concerti, a vedere una mostra o una partita allo stadio. Sono sogni “belli”, quelli che facciamo da svegli che hanno a che vedere con un desiderio e una speranza, mentre di notte i nostri sogni sono condizionati dal coronavirus, che ormai si è installato nella nostra mente e nel nostro inconscio. L’incertezza, l’isolamento, le frustrazioni per il lavoro, tutti i sentimenti di paura e angoscia che di giorno razionalmente cerchiamo di scacciare, tenendoci magari occupati con videochiamate e call di lavoro, a volte attuando comportamenti rischiosi, o condividendo meme ironici nei gruppi di Whatsapp, ma che di notte possono riaffiorare e correre a briglia sciolta attraversando il nostro inconscio.

Immagini oniriche vivide, dal sapore cinematografico, spesso distopiche e angoscianti come in un romanzo di Philip K. Dick, oppure incubi che ci svegliano di soprassalto. In ogni parte del mondo molti psicoterapeuti hanno notato nell’incontro con i propri pazienti che, in questi mesi, le persone non solo sognano più del solito, ma spesso ricordano tutto, in una maniera più vivida e persistente rispetto al passato. Ciò si verifica perché, stiamo continuando a elaborare ogni cambiamento della realtà per renderla accettabile, con l’illusione di essere in grado di controllarla. Nel caso degli incubi invece ciò non è possibile poiché anche ora, in questa piena seconda ondata, ci troviamo nel secondo tempo di un trauma ancora troppo potente e presente.

Deirdre Barrett è una psicologa e ricercatrice dell’Harward Medical School che da anni studia l’impatto di grandi traumi collettivi e sociali sui singoli individui (dal crollo delle Torri Gemelle agli attentati terroristici di Parigi), e che attualmente sta raccogliendo dati e pubblicando già i primi risultati degli effetti della pandemia sulla nostra sfera onirica. Dalla raccolta del materiale onirico di circa 3.000 soggetti provenienti da Europa, Stati Uniti, Canada e Sud America, le categorie di raccolta delle immagini oniriche sembrano essere accomunate da situazioni claustrofobiche, da scene in cui le persone si sentono inseguite, private d’aria o infettate, intubate o legate a letti di ospedali, così come dai volti dei familiari mancati a causa del Covid che generano al risveglio sensi di colpa e di impotenza.

Anche nell’incontro con i miei pazienti, molti sono i sogni di contagi, di inseguimenti con siringhe piene di sostanze tossiche, e di incubi da luogo chiuso con tapparelle bloccate e porte senza maniglie o buchi della serratura. Tra i giovani pazienti, in modo particolare tra coloro che vivevano in una condizione di quarantena genitoriale prima di subire un lockdown nazionale, hanno prodotto immagini oniriche in cui il loro trauma personale si agganciava a quello generale: ecco quindi che i sogni di tanti bambini e adolescenti si sono riempiti di stanze buie in cui avveniva qualcosa di losco piuttosto che cunicoli senza via d’uscita o strade sbarrate. In tal senso serve a poco ai giovani gamer essere campioni nella modalità Salva il mondo di Fortnite se le loro immagini oniriche sono la continuazione senza via d’uscita di ciò a cui hanno giocato fino a poco prima di addormentarsi.

Donatella Di Pietrantonio se nell’Arminuta mette al centro il trauma dell’abbandono, nel suo ultimo romanzo, Borgo Sud, risuona attuale più che mai la tentazione della protagonista –una professoressa pescarese emigrata a Grenoble– di dire ai suoi studenti «capiterà un incidente, la malattia, il terremoto e i vostri sogni saranno interrotti. Vi perderete». L’evento traumatico funziona proprio così, interrompe i nostri sogni in termini di desiderio, di progettualità e di sguardo verso il futuro, tenendoci in ostaggio della paura.

Ecco però che il linguaggio e la parola ci vengono in soccorso come vaccino ed esorcismo all’angoscia. È solo infatti dando parola in maniera condivisa ai nostri incubi e preoccupazioni per il presente e il futuro che possiamo mitigare la nostra fragilità e dolore evitando che ciò che ci mette in crisi si trasformi in trauma o in sintomi, tra cui i disturbi del sonno. Il linguaggio è quel motore che in ciascuno di noi –individualmente o collettivamente– gira al massimo nei tempi critici, quando l’immagine di un futuro dato per scontato rientra in discussione perché il benessere della quotidianità viene messo in crisi da un trauma collettivo, come lo è un microscopico virus sconosciuto.

È in tempi incerti che si riscopre il valore delle parole sulle immagini, non dimentichiamolo e anche questa lezione del virus non sarà stata vana.

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