Se non si conoscono davvero i problemi non si troveranno mai le soluzioni. Approssimazione, “ignoranza”, ma anche scarsa volontà di dialogo, sono stati, nel passato, il filo conduttore di troppi (non tutti) interventi legislativi sulla giustizia: di riforme con gli occhi bendati.

Una prima premessa è doverosa: non bisogna partire dalla risorse, perché i dati europei dicono che pur impiegando personale in misura molto più ridotta rispetto a molti altri paesi europei, l’Italia è in linea con la media Ue (0,33 per cento del Pil).

Il tema degli investimenti è strategico ma per molti, nel passato, è stato un alibi per giustificare l’asserita impossibilità di migliorare la giurisdizione, razionalizzando e riorganizzando il settore. Convivere con lo status quo per puro spirito di conservazione.

Il periodo di lockdown è stata l’ulteriore “cartina di tornasole” di questa realtà che ci trasciniamo da anni, perché ha evidenziato la necessità di una completa digitalizzazione della pubblica amministrazione giudiziaria e dell’introduzione di criteri manageriali nella gestione del lavoro negli uffici giudiziari.

Tale necessità è stata resa più evidente anche dal ricorso, nel periodo di maggior stress da emergenza sanitaria, al lavoro agile, modalità confermata sino a fine anno e alla quale potrà avere accesso personale sino al 50 per cento di quello impiegato nelle attività che possono essere svolte da remoto.

Pertanto, ben vengano udienze da remoto (anche nel penale) e comunicazioni e notificazioni telematiche, ma in tempi brevi occorre: completare la telematizzazione del processo civile (e penale); introdurla negli uffici del giudice di pace e in cassazione; dotare magistrati e personale di cancelleria (unitamente a formazione, aggiornamento e assistenza) di strumenti tecnologici per operare - in condizioni ordinarie e straordinarie - da remoto; assicurare che tutto il comparto giustizia (amministrazioni, strutture carcerarie, uffici periferici, ecc.) sia in grado di operare in modalità digitale nel rispetto della privacy.

In sede di conversione in legge del DL Rilancio il ministero della Giustizia ha dato prova della volontà di intervenire con misure di modernità in tal senso. Non solo digitalizzazione, però; l’organizzazione del lavoro è altro aspetto importante, e qui il discorso si fa più delicato.

Pochi sanno, infatti, dell’impossibilità, nel periodo di lockdown e in quello immediatamente successivo, di un’applicazione uniforme sul territorio nazionale delle norme che regolavano lo svolgimento dei processi e il funzionamento dei tribunali; la loro attuazione era rimessa alle determinazioni dei capi degli uffici giudiziari e il proliferare di protocolli, regolamenti processuali e avvertenze ha generato più incertezze e disagi che una direzione organizzata e ordinata dell’emergenza.

Di qui, l’imprescindibilità di una preparazione e di una valutazione delle capacità organizzative e gestionali in capo a chi aspira alla dirigenza di uffici giudiziari nonché dell’introduzione di criteri e figure manageriali nell’organizzazione del lavoro al loro interno. 

Di un simile approccio beneficerebbe anche l’attività di definizione dell’arretrato civile pendente a rischio “indennizzo da legge Pinto” per irragionevole durata del processo, vera zavorra del sistema.

I dati al marzo 2020 registrano per la prima volta un aumento delle cause ultra-triennali pendenti dinanzi ai tribunali: sono 340.804 rispetto ai 337.740 del dicembre 2019. Sempre in aumento quelle ultrannuali in Cassazione (80.686 rispetto ai precedenti 78.687); lieve flessione di quelle ultra-biennali dinanzi alle corti di appello (97.852 rispetto ai precedenti 98.371). È presumibile che anche i dati al giugno 2020, per effetto del periodo di lockdown, registreranno un loro sensibile aumento.

Occorre uno sforzo straordinario in termini di allocazione razionale delle risorse a disposizione e di organizzazione del lavoro nella trattazione di questo tipo di procedimenti senza generare ulteriore arretrato; l’annunciata riproposizione delle sezioni stralcio e (soprattutto) dell’ufficio del processo, quale rimedio, non sembra fare tesoro delle infelici esperienze passate.

Infine, importanti sono la rilevazione statistica di tutti i procedimenti pendenti, l’analisi della loro natura, il loro studio analitico: la conoscenza del problema prima di tutto. Rapporti e statistiche ministeriali ci dicono che, a fine giugno, i procedimenti civili complessivamente pendenti sono 3 milioni 309 mila (di cui 481.558 per procedure esecutive e fallimenti) rispetto ai 3 milioni 287 mila di fine marzo (prevedibile l’aumento da emergenza sanitaria).

Allo stesso tempo, ci dicono che, nel civile: giudici di pace e tribunali assorbono quanto di loro competenza nel rispetto della “legge Pinto”, il collo di bottiglia è rappresentato dai procedimenti dinanzi alle corti d’appello e a quella di legittimità, l’arretrato in Cassazione è rappresentato per il 54 per cento da contenzioso tributario, elevata è l’incidenza sul totale delle cause seriali e di quelle in cui è coinvolta la pubblica amministrazione, la produttività di un ufficio giudiziario non dipende dalla sua collocazione geografica o dalla dotazione di organico e risorse o dal tasso di litigiosità nel Paese o dal numero degli avvocati.

Conoscere e comprendere il funzionamento del sistema per poi intervenire, a monte, sulle reali criticità non altrimenti risolvibili con norme strettamente processuali; non sempre è questione di soldi né sono in discussione il diritto di difesa o l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati.

Serve una visione di futuro, un patto sociale per la modernizzazione della giustizia, lo diciamo testardamente da anni, ed oggi lo impone la “nuova normalità” imposta dal Covid19.

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