Ieri mattina davanti all’atrio della scuola c’era un arco di palloncini colorati. La sera prima le maestre sono rimaste fino alle otto a scuola per farlo: era per salutare i bambini di prima elementare che oggi arrivavano per la prima volta nelle loro classi. In presenza.

Me le ha fatte notare il preside, prima di uscire dopo l’ultima lunghissima giornata di riunioni per cercare di adeguarci alle norme di sicurezza imposte dall’emergenza. Era commosso, quando mi ha portato a vederle. E la scena ha segnato anche me: stanche, sorridenti, a gonfiare e sistemare palloncini per bambini che avrebbero conosciuto solo l’indomani. Da dove viene questa attesa? Sentire nei corridoi le voci eccitate dei bambini ha cambiato la faccia di tutti noi. Il segretario della scuola, guardandomi negli occhi, mi ha detto: «È per loro in fondo che abbiamo lavorato senza poter vedere nessuno, in tutti questi mesi». Per loro, e per noi che ora li possiamo ascoltare, dico io. 

Sono valse la pena le settimane estive a lavorare intensamente insieme agli altri dirigenti per studiare le planimetrie, rimodulare le aule, ripensare gli orari che scandiscono la giornata, stilare il regolamento che aiuterà i ragazzi, i genitori e i docenti a frequentare di nuovo la scuola. Tanto lavoro spesso invisibile, ma essenziale. Qualche giorno fa, a mezzanotte meno un quarto ero in ufficio in collegamento video con i presidi e gli amministratori, per fare l’ennesima modifica alle linee dei pullman che portano a scuola più di un terzo dei nostri mille studenti: le nuove indicazioni di riempimento all’80 per cento ci hanno costretto a rifare ancora tutto da capo, cercando di considerare tutte le esigenze. Ma ho visto che in questo rifare si imparano pazienza e ascolto. Si impara qualcosa che ha a che fare con l’amore.

In questi giorni, entrando dal cancello della scuola, torno spesso ai mesi della didattica a distanza. La Traccia, la scuola in cui sono insegnante e rettore, si trova a Calcinate, un paese di seimila abitanti nel pieno della bassa bergamasca. Ci arrivano ragazzi da tutta la provincia, tanti dalle località che i telegiornali nazionali hanno reso familiari a tutti: Val Seriana, Alzano, Nembro.

Non dimentico più quel che ho visto per settimane, quando al mattino accendevo il computer per iniziare le lezioni a distanza. Ogni giorno in sei o sette per classe mi informavano: «Questa notte hanno portato via il nonno», «Non so più niente della nonna da giorni», «La mamma è chiusa in camera, perché l’ha preso anche lei», «Lo zio è morto e ho paura per mio fratello perché ha la febbre alta». Non è stato tanto quel che dicevano, ma le loro facce che mi si sono incise dentro: occhi smarriti, in balia della paura, a volte incapaci di esprimere il disorientamento e l’angoscia. Fin dalla prima volta quegli occhi mi hanno inchiodato, e hanno sbriciolato all’istante ogni velleità di ottimismo. Prova tu a dire “Andrà tutto bene” a ragazzi che hanno la morte dentro casa.

Quegli occhi hanno braccato noi insegnanti ogni mattina: «Hai tu qualche risorsa che permetta di affrontare la paura della morte?»,«La lezione che stai per propormi ha a che fare col mio dolore, col mio smarrimento?». Sono queste le domande mute che mi sono sentito sbattere in faccia. E questo mi ha costretto a cercarla, quella speranza di cui i ragazzi hanno sete più che dell’acqua: non la volevano sentire nelle mie belle frasi ottimistiche, ma nel suono della mia voce, la volevano vedere nel riflesso dei miei occhi, palpitare nelle mie vene. Ecco perché i mesi del lockdown hanno costituito per me e per molti altri colleghi un periodo di purificazione: ridotta ai minimi termini, l’educazione si è mostrata come un comunicare il bene che si riceve. Ci è toccato cercarla per noi ogni mattina, quella speranza, come il padre che nel romanzo La strada di Cormac McCarthy cerca fra la cenere i resti di mela per sé e per il figlio in un mondo squassato dall’apocalisse. Allora l’ho chiesta in giro, ad altri occhi: a quelli dei miei cari, degli amici veri, dei miei colleghi.

Così io e gli altri docenti abbiamo cominciato a vedere i germogli di umanità che affioravano dentro al dramma. Innanzitutto, le domande e i desideri che abitano il cuore dei nostri ragazzi. Nessuna paura può spazzare via parole come quelle che hanno scritto nei temi di quei giorni: «Non ho avuto il tempo di vedere o dire addio a mio nonno: l’ultima volta che l’ho visto è stato l’8 marzo. Ogni minuto ogni secondo mi nascono nuove domande di cui non mi capacito: perché c’è la morte? Perché c’è la vita? Cosa significa vivere? Amare?».

Queste domande inarrestabili ci hanno accompagnato in quei giorni, insieme al loro stupore: chiusi nelle loro case, ragazzi che tante volte hanno ceduto all’apatia cronica della nostra generazione hanno cominciato ad accorgersi della presenza delle cose, con una consapevolezza che ha risvegliato anche noi adulti.

Il diario delle meraviglie
Mi ha impressionato che durante i mesi della quarantena una ragazza delle medie abbia scritto e inviato alla sua professoressa un “diario delle meraviglie”: tutte le piccole cose che normalmente aveva dato per scontato e che in quel momento si sono rivelate ai suoi occhi come preziose: «In questi giorni è facile da notare il grande silenzio che regna su Trescore, la luce di questa mattina è spettacolare: tornano gli uccelli insieme al loro canto. In questi giorni vivo in modo un po’ diverso, perché il non poter uscire ti fa accorgere di più della bellezza del mondo. Il caldo di ieri; il sole caldo di ieri -il vento con il suo flebile sussurro - le rose cresciute nel mio giardino». 

Torno spesso a queste parole, perché mi mostrano la fiamma che brucia in ciascuno dei nostri ragazzi, sotto la paura che spesso li rende aggressivi, sotto l’istintività e l’irrazionalità che spesso li spingono ad atti inconcepibili o distruttivi, come quelli che abbiamo letto sui giornali in questi giorni. C’è in tutti loro la sconvolgente fame di senso che quest’estate mi ha sbattuto in faccia una ragazza ora impegnata nel faticoso cammino di una comunità di recupero: «Professore, bisogna che ci sia qualcuno che comunichi a noi ragazzi il senso del vivere, il gusto del quotidiano». E ha aggiunto: «Ci vuole qualcuno che mostri che si può non aver paura delle domande di senso, di felicità».

Ci penso in questi giorni, quando la fatica della preparazione delle condizioni per il rientro sembra prevalere. O penso alle parole di un’altra ragazza: «Mi mancano gli amici, le aule, i professori insomma tutto, ma credo che senza questa situazione non avrei mai capito fino in fondo il valore  di una lezione, una risata con i compagni, il buongiorno di un professore quando entra in classe, la bellezza di potere avere un dialogo insieme in merito a un argomento».

Ha ragione lei: in quei mesi la scuola si è svelata per quello che è. La possibilità di introdurci insieme ai nostri ragazzi nella realtà. Chiusi nelle nostre case, io e i miei studenti abbiamo riscoperto le materie come una finestra sull’infinito. Penso alle lezioni di quelle settimane: per quanto limitate dalla distanza e dagli strumenti tecnici, hanno permesso alle parole di Buzzati, di Collodi, di Virgilio di tornare a dialogare con noi. Un’alunna mi ha scritto: «Proprio in questi giorni mi sono ritrovata a commuovermi su alcuni versi dell’Eneide. Prima non mi sarei mai soffermata sulle parole di un poema, mentre in questo periodo sto dando loro l’importanza che secondo me davvero meritano».

Un passo di responsabilità
Iniziamo perché ne hanno bisogno i ragazzi, iniziamo perché ne abbiamo bisogno noi insegnanti: il cammino di scoperta che si può vivere in classe, gli sguardi pieni di domande, di obiezioni, a volte di noia, la loro presenza fisica così espressiva delle loro esigenze, sono l’alimento che riaccende la mia ricerca di uomo, che «rinnova la giovinezza della mia vita», come mi aveva detto il professore grazie al quale è nata la mia vocazione di insegnante. Ma come faremo a ricominciare, in mezzo a tutte le ristrettezze le limitazioni e le regole che la situazione sanitaria ci impone? Basterà questo smisurato bisogno per sostenere la fatica e gli imprevisti che ci troveremo ad affrontare?

Il presente sta chiedendo alla nostra generazione un passo di responsabilità e consapevolezza non molto diverso da quello che fu chiesto ai miei nonni, Maria, Andrea, Bianca e Angelo durante e dopo la Seconda guerra mondiale: con meno mezzi di noi, loro rintracciarono nella propria storia una speranza sufficiente a sostenerli in mezzo alle macerie e alle incognite. Leggendo le lettere che si scambiavano in quegli anni in cui i mariti erano lontani mi è diventato chiaro che, insieme agli strumenti, ai sussidi, agli aiuti e ai contributi economici, quello che li ha veramente sostenuti nel ricostruire è stata una invincibile speranza. «La speranza è il problema», ha scritto un ragazzo in una lettera che ha attraversato il web col titolo Il grido. Lo ha colto anche un collega, che ha recentemente scritto questo post su Facebook:«Tra poche ore rientro in classe dopo quasi 7 mesi. Ci rientro con tante domande e tanti dubbi (guardando ad un futuro incerto). Ci sarebbero mille motivi per rimanere a casa, come pochi giorni fa qualcuno mi ha detto. La sfida che percepisco come uomo, educatore e insegnante, è quella di ritrovare il grande motivo che mi fa accettare i rischi che questa situazione necessariamente comporta, quel motivo che mi permette di passare attraverso i dubbi e le domande non negandoli, ma (sop)portandoli in vista di qualcosa di grande. Questo motivo ha anzitutto a che fare con la speranza: non con l'illusione, ma con la speranza che questo tempo ha qualcosa di buono da consegnarci, che questa è l'occasione buona per noi per divenire, ancora una volta, in modo ancora più autentico, donne e uomini».

È per riaccendere in me il fuoco della mia umanità che ieri sono entrato in classe, nella seconda liceo scientifico e nella seconda media, dove sarò chiamato a essere semplicemente quello che sono: un uomo fragile, come tutti segnato da paure e insicurezze, ma animato da una speranza che cerco e chiedo di ricevere ogni giorno.



 


 

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