Non occorre sforzarsi troppo per capire quanto sarebbe stato difficile affrontare la pandemia di Covid-19 solo dieci o quindici anni fa senza i supporti tecnologici di cui disponiamo adesso. Il punto essenziale, la lezione appresa è (forse) l’aver capito che politica, economia, finanza si agitano su un palcoscenico sostenuto da travature che si chiamano: fisica, chimica, biologia e informatica.

I cittadini devono prendere atto che il nostro benessere e quello delle generazioni che verranno è condizionato totalmente dallo sviluppo tecnologico e scientifico. I problemi che abbiamo di fronte, come il cambiamento climatico, possono essere risolti solo con maggiore sviluppo tecnico-scientifico, che è l’unico strumento per trovare nuovi fonti energetiche e sfruttare in modo più efficiente ed equilibrato quelle disponibili. Questa primazia delle scienze è davanti ai nostri occhi ma non è stata interiorizzata da governi e cittadini.

Nell’annuario scienza tecnologia e società 2020 si legge che l’alfabetizzazione scientifica dei cittadini italiani è aumentata del 13 per cento dal 2011 al 2019. Oggi l’81 per cento della popolazione ritiene che i benefici apportati da scienza e tecnologia siano maggiori degli svantaggi, ma la scena in movimento dietro le percentuali è più complessa.

L’importanza della comunicazione scientifica, intesa non come “divulgazione”, ossia avvicinamento del popolo alla conoscenza, ma come mezzo per trasmettere e diffondere messaggi è costantemente trascurata e negata, anche dagli stessi scienziati. Rifugiarsi nella stigmatizzazione di Umberto Eco sulle legioni di imbecilli che avrebbero acquisito diritto di parola è il miglior modo di lasciare campo libero a coloro che per mestiere o per convinzione propagano fake news, disinformazione e complottismi. Se queste legioni esistono, oltre al diritto di parola hanno anche diritto di voto e, malgrado i progressi della meccanica statistica, nessuno ha ancora trovato un modo di pesare i voti invece di contarli.

L’uso didascalico dei social da parte di intellettuali, scienziati e istituzioni scientifiche è modellato sull’utilizzo di post spesso autoreferenziali e sull’assenza di interazione con gli utenti. Il risultato è una capacità di influenza praticamente nulla al di fuori dalla bolla degli “entusiasti” e manca il proposito di convincere il maggior numero possibile di cittadini-elettori del fatto che la scienza è il motore originario della nostra civiltà ipercomplessa e iperconnessa.

Invece questo messaggio deve essere continuamente ribadito e declinato in varie forme affinché stratifichi nell’opinione pubblica. “La Scienza non è democratica” è uno slogan che fa più danno che bene. La Filosofia è democratica? L’Arte lo è? Parafrasando lo storico dell’arte Ernst Gombrich, la “Scienza” non esiste: esistono gli scienziati, ossia uomini che portano avanti la frontiera della conoscenza applicando il metodo scientifico ogniqualvolta sia possibile. E gli scienziati, da cittadini di stati democratici, hanno il dovere di spiegare che la scienza è oggi uno dei pilastri su cui poggiano le democrazie: se il suo motore si spegnesse la civiltà come la conosciamo ora finirebbe.

In questo contesto, la divulgazione scientifica “vecchio stile” non serve. Essa è rimasta vincolata alla pretesa di spiegare rudimenti di questa o quella disciplina, ma è ridotta a intrattenimento. Secondo i dati di un’indagine Piaac – Ocse del 2019, in Italia il 28 per cento della popolazione tra i 16 e i 65 anni è analfabeta funzionale: un dato tra i più alti in Europa. Secondo l’Istat ben il 51,4 per cento di chi si informa di politica lo fa attraverso Internet, ossia, tra le altre fonti, anche attraverso i social network e via cellulare.

Questi dati non sono direttamente aggregabili ma fanno riflettere: i vecchi linguaggi come quello della divulgazione o della tribuna politica sono morti o agonizzanti, mentre la comunicazione social prende sempre più piede imponendo le sue modalità permeabili alle fake news e alle reazioni istintive.

Fasce di popolazione sempre maggiori accedendo ai social network subiscono una tempesta di informazioni, un’”entropia informazionale”. Il ripudio o lo snobismo di intellettuali e scienziati verso la comunicazione social, che, come ogni mezzo, può essere usata in modo costruttivo, non fa altro che desertificare il terreno, invece di fornire un riparo sicuro contro questo uragano entropico.

Andrebbe dispiegata da parte dei soggetti consapevoli (singoli e istituzioni) una strategia coerente che prenda le mosse anche dalle tecniche di marketing digitale che si avvalgono di figure come influencer e ambassador. Infatti bisognerebbe saper ispirare prima ancora di saper spiegare: una ragazza che segue Chiara Ferragni vuole essere Chiara Ferragni. Sarebbe interessante sapere quante ventenni vorrebbero essere Ilaria Capua o Fabiola Gianotti.

Gli operatori dei mezzi di informazione sono convinti che la scienza non faccia ascolti, non acchiappi click o comunque sia perdente rispetto al sensazionalismo. Le redazioni non hanno le competenze per effettuare la minima validazione su una notizia scientifica, per cui rimangono solo titoli e annunci.

Nell’uragano di entropia informazionale, titoli e annunci sono come pietre e mattoni vaganti: non colpiscono tutti, ma quando colpiscono fanno molto danno. In questo scenario, i social network sono una terra ancora incognita e non a caso sono diventati il brodo di coltura delle verità alternative e del complottismo che intenzionalmente o intuitivamente padroneggiano la comunicazione social.

Le teorie del complotto sono viste da chi ne è fuori come fuffa per gonzi ma anche qui si guarda il dito e non la luna. Non è importante quanto sia stupido ciò che il complottismo afferma, è importante il seguito che si guadagna, una valuta pregiata sui social che può sempre essere convertito in consenso. È successo con la Brexit, con l’elezione di Donald Trump e molto probabilmente succederà ancora in forme che non siamo in grado di prevedere.

Complottismi e gruppi di verità alternative non hanno capi, sono organismi ancora allo stadio primordiale, ma ci sono segnali che si stiano organizzando in culti, come sta accadendo a QAnon. Ogni setta o culto per ingrandirsi assorbe le suggestioni preesistenti, sintetizzando un nuovo credo funzionale ai propri interessi.

L’incapacità di formulare pensieri strutturati, però, non implica l’impossibilità di svolgere compiti coerenti. Se si prende una cartina della metropolitana di Londra e in corrispondenza delle fermate si mette una goccia di acqua e zucchero poi si pone in un punto qualsiasi un grumo di muffa mucillaginosa, si vedrà la muffa seguire il percorso ottimale, ossia il reticolo della metropolitana, per connettersi con il cibo, senza bisogno di alcun pensiero strutturato o di una laurea in ingegneria.

L’innalzamento dello stress individuale e sociale innescato dalla pandemia ha prodotto un cambiamento radicale nel comportamento dei gruppi cospirativi: mentre in precedenza si limitavano a ignorarsi o a sfiorarsi come branchi di erbivori diversi nella savana, ora stanno correndo tutti nella stessa direzione.

La spinta della tempesta di entropia informazionale sta creando un unico soggetto alternativo forse grado di agire in modo globale o di rappresentare una riserva di consenso a chiunque fosse capace di polarizzarli con il giusto input, proprio come fa l’acqua con lo zucchero con la muffa mucillaginosa. Questo fenomeno è già avvenuto, in parte anche in Italia, dove si è tentato di capitalizzare politicamente il consenso di gruppi alternativi come i NoVax o i NoTav. Alla prova dei fatti diventa difficile mantenere questo consenso una volta che lo si è sfruttato a fini elettorali, ma la formazione di un unico soggetto alternativo dalla struttura ameboide lo rende anche più duro da dissolvere utilizzando i riscontri fattuali. Un ottimo esempio di quanto possa essere grande questa difficoltà è l’operazione di debunking delle fake news legate alla presidenza di Donald Trump.

Diventa quindi di primaria importanza, da parte di intellettuali, scienziati, istituzioni, reclamare indietro la terra di nessuno che stanno diventando oggi i social network e ridurre l’entropia del sistema, prima di finirne estromessi.

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