Doveva essere «la legge delle leggi sul clima», come l'aveva definita il commissario europeo al Green Deal Frans Timmermans, ma è diventata terreno di scontro prima tra Parlamento e Consiglio Europeo, poi anche tra le diverse famiglie politiche che compongono il Parlamento stesso. Stiamo parlando della “Climate law”. 

Un iter complesso

Presentata dalla Commissione europea a guida Von Der Leyen sull’onda delle proteste per il clima e dell’exploit verde alle elezioni del 2019, fin dalla proposta originaria la legge comprende un obiettivo finale di zero emissioni nette al 2050. Quell’aggettivo, nette, è da tenere in considerazione, perché significa che una piccola quantità di gas climalteranti potrà continuare ad essere rilasciata in atmosfera anche nella seconda metà del secolo, a patto che sia compensata da riforestazione o ancora avveniristici impianti di cattura della CO2.

Arrivata al Parlamento europeo, una maggioranza che va dai verdi ai socialisti passando per i liberali di Renew Europe e la sinistra del Gue/Ngl l'ha modificata con una serie di emendamenti. In particolare, i deputati hanno proposto un taglio del 60 per cento delle emissioni nette rispetto ai livelli del 1990 da raggiungere entro il 2030; il calcolo di un carbon budget - ossia della quantità di CO2 equivalente che ancora possiamo liberare in atmosfera - da considerare vincolante; l’istituzione dell’European Climate Change Council, un foro scientifico indipendente che consigli le istituzioni europee nelle loro scelte.

La palla è ora tra Parlamento e Consiglio Europeo, che devono trovare un accordo affinché la legge passi definitivamente. E proprio tra questi due organi si consuma il primo degli scontri che stanno rendendo lento e difficoltoso il percorso della Climate law.

Il Consiglio, che rappresenta gli stati membri, è su posizioni più moderate del Parlamento. Propone un target al 2030 di almeno il 55 per cento delle emissioni, non solo, Joao Pedro Matos Fernandes, ministro portoghese dell’Ambiente e della Transizione Energetica, ha detto con chiarezza un mese fa che la creazione di un osservatorio indipendente sulle emissioni Ue, l’introduzione di un «bilancio del carbonio» e la proposta di agende settoriali di riduzione delle emissioni «sono cose completamente nuove, idee dell'Europarlamento non incluse né nella proposta della Commissione, né nell'orientamento generale del Consiglio».

I triloghi - cioè gli incontri informali a tre tra Commissione, Parlamento e Consiglio - non hanno portato a grandi passi avanti, e l’Europa rischia sempre più di arrivare ai prossimi round di negoziazioni internazionali sul clima senza una posizione comune.

Liberali e progressisti

Proprio l’imminenza del summit globale in occasione della Giornata Mondiale della Terra sembra aver dato un'accelerata improvvisa alle trattative. Per il 22 e 23 aprile il presidente americano Joe Biden ha invitato quaranta capi di stato e di governo a un incontro sul riscaldamento globale. Sono stati contattati tra gli altri Xi Jinping, Vladimir Putin, Jair Bolsonaro, Narendra Modi. Invitati a partecipare anche tutti i principali leader europei - dalla tedesca Angela Merkel al francese Emmanuel Macron, dalla presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen al presidente Charles Michel, fino al presidente di nomina recente Mario Draghi. I paesi dell’Unione vorrebbero presentarsi con dei target comuni all’intera Ue per proporsi come riferimento internazionale, e alcuni potrebbero essere anche disposti a venire a compromessi pur di trovare un accordo di massima entro quella data.

In una conferenza stampa della settimana scorsa, l'eurodeputato tedesco Michael Bloss, relatore ombra nei negoziati sulla Climate law per il gruppo dei Verdi, ha speso parole durissime contro il presidente della commissione ambiente del Parlamento europeo, il francese Pascal Canfin. «C’è un cattivo nella stanza» ha detto l’esponente ecologista «e se riuscirà a ribaltare la maggioranza e il mandato del Parlamento, siamo nei guai».

L’accusa che Bloss rivolge a Canfin è di essere disposto a cedere su larga parte delle proposte che la sua stessa commissione parlamentare ha elaborato pur di arrivare ad un accordo in tempi rapidi. «Deve scegliere, o il Parlamento o Macron» ha concluso Bloss, suggerendo che le posizioni del collega francese siano frutto dei desiderata dell’Eliseo.

La seconda spaccatura consumata attorno alle legge sul clima è proprio quella che potrebbe avvenire tra i liberali di Renew Europe - il gruppo fondato da Macron a cui anche Canfin appartiene - e le altre famiglie progressiste. Una divisione stavolta interna al Parlamento europeo, che rende inevitabilmente più forte la posizione del Consiglio.

I triloghi, infatti, sono riunioni informali. Qualunque accordo trovato in quella sede dovrà essere poi votato da Consiglio e Parlamento. Se dovesse mancare l’appoggio di Renew Europe le altre forze progressiste - socialisti, verdi, sinistra - non avranno i numeri per restare ferme sulle proprie posizioni.

Una legge comunque criticata

A prescindere da quale parte abbia la meglio alla fine, ecologisti e movimenti giovanili sono già sul piede di guerra. «Le emissioni devono essere ridotte di almeno il sessantacinque per cento entro il 2030 se vogliamo rispettare l’accordo sul clima di Parigi» scrisse Greenpeace in una nota quando venne pubblicata la prima versione della legge. Dello stesso parere gli attivisti di Fridays For Future, che accusano l’Unione Europea di «star barando coi numeri». La critica del movimento di Greta Thunberg si concentra in particolare sulla data di riferimento scelta per calcolare la riduzione delle emissioni: meno sessanta per cento (nella versione più generosa, quella del Parlamento) rispetto ai livelli del 1990. Da allora, fanno notare gli attivisti, le emissioni sono già calate del ventitré per cento - anche grazie alla delocalizzazione di molte industrie inquinanti. Sessanta meno ventitrè, è facile capire che la riduzione effettiva da qua al 2030 sarà di meno di meno del quaranta per cento.

Altre critiche riguardano l’assenza di meccanismi che assicurino il rispetto degli impegni presi - una questione che da sempre caratterizza i negoziati sul clima anche a livello globale - e il problema della delocalizzazione. Nulla viene detto, infatti. sulle aziende europee all’estero, e molti tra esperti ed attivisti temono che almeno parte della riduzione promessa si ottenga semplicemente spostando impianti energetici ed industrie ad alta intensità carbonica fuori dai confini dell’Unione.

Il prossimo trilogo sarà il 20 aprile, due giorni prima del summit promosso da Biden. E un altro incontro ancora più importante - la Cop26 di Glasgow prevista per novembre - sarà fortemente influenzato dalle posizioni europee. Un motivo in più per tenere d’occhio quando accade a Bruxelles.

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