Luca D'Urbino, illustratore di notevole talento, ha accumulato numerosi premi e riconoscimenti a livello internazionale, tra cui la Society of Illustrators di New York, Autori D'Immagini, Communication Arts Award of Excellence, American Illustration e Association of Illustrators London.

Com’è iniziato il tuo percorso di illustratore?

La risposta breve è all’asilo, infilandomi i pastelli a cera nel naso. Che poi è anche la risposta giusta, perché è davvero difficile identificare un punto esatto nel tempo in cui comincia il mio percorso. Ho come la sensazione che non avrei mai potuto fare altro, quindi mi sembra che tutto il mio vissuto abbia in fondo contribuito a portarmi a vivere di disegni. Sicuramente frequentare un liceo scientifico molto rigido e aver avuto dei professori con l’empatia e il carisma di un termosifone mi hanno posto di fronte alla necessità di riempire le lunghe ore di noia con la fantasia e la matita.

Laurearmi in Disegno industriale al Politecnico di Milano è stato un grande esercizio di apertura mentale e creatività, e allo stesso tempo funzionale a farmi capire che avrei voluto applicarle a un ambito più leggero e con processi meno vincolanti come le arti grafiche. Ah, nota di colore, al Poli mi hanno bocciato all’esame di disegno. La mia prima illustrazione è stata stampata nel 2013 sul New York Times, senza dubbio una certa qual iniezione di fiducia. Ci sono arrivato grazie a un concorso del MiMaster, corso che è stato il mio primo passo in questo mondo. Le cose non hanno poi ingranato subito e ci sono voluti dieci anni per tornare sul NYT, ma è stato sicuramente un punto di svolta.

Dopo il master ho fatto un po’ di tutto, dall’apicoltore al cameriere all’albergatore, continuando a produrre sporadiche immagini ma ormai rassegnato a non poter vivere di quello.

Ho così frequentato un corso di Motion Design alla Bauer di Milano per cercare di reinventarmi e tramite loro ho fatto uno stage da Bonsai Ninja Studio. Di Motion ne ho poi fatto poco, ma lavorare in un contesto così strutturato prima di lanciarmi come freelance è stato davvero formativo. Poi mentre studiavo sono iniziate le prime collaborazioni con The Economist ed il resto è storia.

I suoi lavori riflettono una predilezione per temi vicini alla politica e all'attualità. È una caratteristica che ha sempre avuto?

Ammiro i grandi vignettisti e già da piccolo mi facevo spiegare Giannelli, Altan ed Ellekappa dai miei genitori. Ma l'attualità mi ha sempre interessato anche oltre al discorso illustrazione. Credo che essere curiosi sui temi da affrontare sia fondamentale per svolgere un buon lavoro. Per anni ho lavorato su testi economici, argomento di cui non so granché.

Ogni volta è stato interessante fare ricerca e apprendere nozioni che sono importanti per risolve l’illustrazione in se, ma anche come bagaglio personale. Sono abbastanza fatalista sul genere di lavori che mi vengono commissionati e non penso di aver mai fatto una scelta conscia in questa o quella direzione. Più che una mia predilezione è quello che mi chiede il mercato.

Ultimamente ho cercato di spaziare il più possibile sia sui temi che sulle applicazioni delle mie immagini, allontanandomi dalla carta stampata per realizzare maglie sportive, murales, etichette di birre. Insomma, è un po’ l’unico modo per restare motivati e, in fondo, non annoiarsi.

Quali consigli darebbe a chi vuole intraprendere la carriera di illustratore, soprattutto a livello internazionale?

Sembra banale, ma prima di tutto imparare l’inglese. Ovvietà a parte, ci vuole tanta pazienza e la consapevolezza che non è un percorso di crescita lineare. Anzi. Si tratta di giocare bene le proprie carte, avere delle sonore botte di culo e giocarsi ancora bene le proprie carte fino alla successiva botta. E poi proporsi, mandare mail, partecipare a concorsi, avere portfolio curati, andare alle portfolio review. Nessuna di queste cose sarà un punto di svolta, ma l’insieme di tutte queste attività aiuterà a creare quella presenza sul mercato che porterà a collaborazioni e commissioni.

Il tema di questo mese dell’inserto Finzioni è La radice, a cosa le fa pensare questa parola? A cosa si è ispirato per la cover?

Per realizzare la copertina di Finzioni ho attinto all’immaginario storico della Mandragora, pianta la cui radice caratterizzata da una peculiare biforcazione è facilmente riconducibile a forme antropomorfe. Si attribuiscono poteri officinali e magici alle radici di queste Solanaceae da millenni (quindi sì, da prima di Harry Potter) ma richiamano anche un immaginario molto più vicino a noi: chi non ha mai visto le foto di quelle adorabili carotine che sembrano omini, spesso ricordando piccole figure priapiche.

Una volta personificate le radici è stato facile caricarle di valenze non solo formali, ma anche emotivamente umane. Questo abbraccio tra radici di piante diverse va così a ricalcare i temi di “legame” e “relazione”.

Ha mai rinunciato a opportunità di lavoro perché non erano in linea con i tuoi principi o ideali?

Prendo quasi tutti i lavori anche perché, a differenza di un vignettista, non propongo un mio punto di vista su un dato tema ma mi occupo di visualizzare il contenuto di un testo e l'opinione dell'autore. E una certa distanza tra i miei principi e il contenuto degli articoli ci sarà sempre, è fisiologico ed è molto difficile tracciare una linea morale su cosa sia accettabile o meno.

Solo in una occasione molto recente ho rifiutato un lavoro perché erano temi per me davvero troppo delicati proposti da una testata che sapevo essere di parte. In quel caso ho rifiutato senza nemmeno leggere l’articolo.

Ci racconti di come realizza le sue illustrazioni. Quanto è importante per lei il digitale?

Le mie illustrazioni sono 100% digitali, quindi è a dir poco fondamentale. I tempi e le modifiche sono talmente stringenti che ormai ho un livello per ogni cosa, addirittura i miei disegni sono tutti in bianco e nero con dei livelli di regolazione (perdonami il tecnicismo) che assegnano i vari colori, di modo che a richiesta sia tutto sempre modificabile in un attimo.

D'altra parte appena posso scappo dallo schermo e ho sviluppato diversi feticci tra cui quelli per la calligrafia e per l’incisione, attività meditative che ti obbligano a convivere con l’imprevisto e l’errore, elementi che nel digitale non sono contemplati.

Ha qualche progetto futuro di è sei particolarmente entusiasta e può raccontarci qualcosa?

Ogni due anni dal 2020 curo e partecipo a una mostra che si chiama Anima e Corpo negli spazi di Heracles Gymnasium, palestra di pugilato in Via Padova a Milano che si occupa della crescita sportiva e culturale del quartiere. Nelle due precedenti edizioni ho lavorato con tanti amici e colleghi e ci siamo anche tolti delle soddisfazioni, dato che lo scorso anno per questo progetto siamo volati a New York a ritirare una medaglia dalla prestigiosa Society of Illustrators.

Il 12 maggio si inaugura la terza edizione e lavorerò a quattro mani con Gloria Pizzilli, collaborazione che mi entusiasma molto perché è un'artista incredibile. Nella scorsa edizione abbiamo illustrato cinque sacchi da pugilato, in questa… lo vedrete presto

Nel mondo della creatività, affrontare sfide è inevitabile. Ci racconti di una sfida significativa che ha dovuto affrontare nel suo percorso creativo.

Fare un lavoro creativo, per di più da freelance, è una sfida di per sé che va molto al di là di risolvere un brief o centrare una consegna. Sì, i temi sono difficili e ogni lavoro inizia con un attacco di panico perché “maddai ma sta roba non si può mica illustrare”. I tempi sono stretti e la maggior parte dei miei lavori si svolge in giornata, con un brief che arriva a mezzodì e l’immagine consegnata a mezzanotte. Spesso mi è capitato di lavorare a due o tre illustrazioni nello stesso pomeriggio.

Ma il difficile non è tanto produrre immagini. È restare motivati nei periodi in cui lavori poco o sano di mente quando lavori troppo. È emergere in un mercato saturo. È restare fermi nei propri propositi mentre i tuoi coetanei hanno posto fisso, tredicesima e malattia. È lavorare a Natale e Capodanno, è portarsi il pc al mare, è pensare al lavoro anche mentre dormi e non riuscire mai veramente a staccare. Insomma, la sfida più grande di essere un creativo è proprio essere un creativo. Sinceramente, non lo cambierei per nulla al mondo.

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