Pif su Domani di domenica scorsa rivela che le celebrazioni per la morte di Maradona lo hanno innervosito, proprio in quanto meridionale che non si riconosce nei molti luoghi comuni richiamati: il riscatto del Sud, la furbizia, la scugnizzeria.

Da napoletano posso dire che hanno innervosito anche me. Innanzitutto, per l’enorme retorica servita soltanto a riaffermare come Napoli, soprattutto vista da fuori, non riesca ad andare oltre San Gregorio Armeno e gli altarini ai quartieri spagnoli. Stereotipi ai quali anche i napoletani non riescono proprio a sottrarsi. In secondo luogo, perché sono convinto che Napoli abbia tradito Maradona. Innanzitutto, la società calcio Napoli, quando il Presidente Ferlaino non lo “liberò” nel momento in cui il “pibe” glielo chiese, perché si sentiva soffocato da un amore che stava diventando eccessivo e da relazioni pericolose in cui si sentiva ormai incagliato, senza avere la forza di uscirne. Un tradimento estendibile a tutta la città, soprattutto la borghesia dei quartieri bene, che continuava a esibire Maradona alle proprie feste, constatandone la fragilità, ma sottovalutandola e preferendo il piacere dell’effimera condivisione.

La lettura di Maradona come riscatto può funzionare per la sua capacità di prendere per mano l’intera città in uno dei suoi momenti più difficili e mostrargli come si potesse primeggiare liberando talento e umiltà: le due risorse che a Diego tutti hanno riconosciuto. Ma se sottolineiamo questo aspetto, dobbiamo parlare di fallimento, perché – diversamente da quanto si è detto – gli anni napoletani del genio del calcio sono coincisi con uno dei periodi più bui della storia cittadina.

C’è però un aspetto su cui dissento da Pif. Quando sembra dare un giudizio morale sul cattivo esempio della sua vita privata. Perché paradossalmente è proprio lì che risiede la principale peculiarità del mito di Maradona.

Maradona non si nasconde, mostra il suo tallone d’Achille, la sua fragilità. Gli eccessi con la cocaina, la vita sregolata così poco d’atleta, figli seminati per il pianeta ci dicono della sua imperfezione.

Lui, un calciatore ineguagliabile, uno sportivo irreprensibile, martoriato dagli avversari da marcature asfissianti eppure mai polemico, umile, generoso e disponibile con compagni di squadra e avversari, come tutti coloro che lo hanno conosciuto stanno ribadendo in questi giorni, aveva un suo oscurissimo privato. Un’incoerenza evidenziata dall’incapacità di resistere a qualsiasi tentazione, dal fallimento nella manutenzione di tutti i suoi affetti più cari.

Inarrivabile e miserrimo

Un’incredibile ambivalenza, la sublimazione degli opposti tipica delle nostre società dell’incertezza, dei nostri quotidiani stress psicologici, della nostra difficoltà nel gestire identità composte da tantissimi pezzi che fatichiamo a tenere insieme.

Proprio per questo è un perfetto mito contemporaneo: inarrivabile eppure miserrimo, come spesso si sente ciascuno di noi; amabile eppure odiosamente distante, come capita a tutti noi. Legatissimo alle sue origini eppure voglioso di scappare. Acclamato da tutti e, quindi, condannato a stare sempre sulla scena; certo più di noi, che comunque siamo chiamati mai come oggi a gestire una perenne visibilità per la paura dell’oblio, come l’ossessione dei social ci conferma ogni giorno. Affannati dietro modelli che si contrappongono e ci confondono.

Al di là dai tanti, discutibili e discussi motivi dell’affetto morboso dei napoletani, ciò che mi ha colpito della sua morte è stata la celebrazione mondiale del suo mito. Da parte di chi lo ha vissuto da vicino, di quanti, in modo più disincantato da lontano, perché magari poco interessati alle sue gesta sportive, dei più giovani che ne hanno sentito soltanto parlare, oppure visto attraverso quella memoria inesauribile che l’ambiente digitale mette a disposizione di tutti.

Commossi certamente per il campione capace di dribblare tutti, anche le convenzioni, per l’abilità nel trasformare i falli di mano in gesta eroiche; ma, soprattutto, per quell’uomo spezzato, contorto, irrisolto, dalle mille contraddizioni, in cui poter rispecchiare le proprie fragilità.

Di tutto questo era ben consapevole, se è vero quanto raccontano, che al poliziotto andato ad arrestarlo e che sdegnato lo ammoniva dicendogli: «Mi hai deluso, eri l’eroe di mio figlio», Maradona rispose sprezzante: «Cretino, l’eroe di tuo figlio devi essere tu».

Una replica tranciante quanto arguta. Ma forse anche mesta, come a ricordare a sé stesso di aver fallito proprio in questo: essere l’eroe dei suoi cari.

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