Si possono coniugare i diritti ambientali con quelli del lavoro? È possibile difendere al contempo il diritto alla salute dei cittadini e quello a non perdere il proprio posto di lavoro?

Se dovessimo dare una risposta a partire da quello che ci racconta oggi il processo sull’Ilva dovremmo rispondere negativamente a queste domande.

Conosco Nichi Vendola da tanti anni ed è anche grazie a persone come lui che ho imparato ad amare la politica. 

E dichiararlo in premessa è il modo di chiarire a chi legge queste righe che il giudizio sul suo operato è partigiano, condizionato dall’aver condiviso in quegli anni le sue scelte politiche, la sua passione infinita, con fiducia cieca nel suo operato, nella sua onestà e nella sua caratura etica e morale.

Ma questo non mi impedisce di vedere alcuni dati oggettivi che in questa assurda vicenda sono sotto gli occhi di noi tutti.

Un’esperienza innovativa

Quella di Nichi Vendola in Puglia è stata una delle esperienze di governo più innovative che si sia mai registrata nel mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra ad oggi.

Prima di Vendola, la Puglia era fanalino di coda di un Sud che era e purtroppo resta fanalino di coda in Europa.

Durante gli anni in cui è stato presidente, Nichi ha saputo prima di tutto valorizzare le straordinarie risorse, soprattutto umane, che la sua terra aveva.

Nulla a che vedere con la disastrosa gestione del potere delle altre regioni del sud.

Ma, spesso, anche la migliore esperienza di Governo rischia di naufragare quando decide di occuparsi di questioni complesse cercando di perseguire un interesse generale e non di parte.

E così è stato per Nichi sulla questione dell’Ilva. 

Non è un conflitto facile da gestire quello tra capitale e ambiente, soprattutto quando si intreccia con il ricatto occupazionale. 

Così Nichi ha pagato la colpa di provare a trovare una soluzione che coniugasse due interessi, ovvero riqualificare la produzione industriale senza rinunciare e perdere posti di lavoro.

Questa sua ostinazione gli è costata la condanna di questi giorni. 

Avrebbe potuto fare come tutti prima di lui: restare a guardare, far finta di occuparsene, non affrontare il problema per non risolverlo e lasciarlo in eredità a chi veniva dopo. Invece nel 2008 vara la legge antidiossina più avanzata in Europa grazie alla quale oggi abbiamo i dati sulle emissioni dell’Ilva su cui si fonda il processo che lo ha condannato.

Il paradosso

È esattamente questo il paradosso di questa vicenda: se non ci fossero state le leggi ed i provvedimenti della Giunta Vendola non ci sarebbe stato il processo. Se non ci fosse stata la scelta coraggiosa di potenziare l’Arpa e affidarla alla guida del professor Assennato, oggi non ci sarebbe nessuna verità sui danni incalcolabili che l’Ilva ha causato alla città di Taranto, ai suoi cittadini e alle sue cittadine.

Ed è qui che si crea il cortocircuito, il pregiudizio che lo porterà dentro il teorema della della magistratura tarantina. Se Vendola non vuole chiudere l’Ilva allora deve essere per forza colpevole. 

Senza alcun movente e senza che ne abbia tratto alcun vantaggio, avrebbe esercitato pressione sul professor Assennato per migliorare i dati sulle emissioni che erano stati ottenuti grazie alle sue leggi e agli investimenti sull’Arpa fatti dal suo stesso Governo.

Non è questa la sede per contestare la sentenza del Tribunale di Taranto, per questo ci sarà il processo di Appello, nell’ambito del quale sono sicuro Nichi dimostrerà ogni estraneità ai fatti contestati e da cui uscirà ancora una volta a testa alta. 

Ma c'è una riflessione che oggi penso debba riguardare tutta la politica. Dopo il fallimento di questo ennesimo tentativo ha ancora senso pensare ancora di tenere aperta l’Ilva?

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