Franco Di Carlo si è raccontato e molto, ma quello che compie qui è il disvelamento della trama di rapporti che ha intessuto da uomo d’onore e portato in dote, prima ai Corleonesi e poi a uno Stato che non aveva troppa voglia di ascoltarlo per non correre il rischio di guardarsi allo specchio
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.
C’è un uomo che di queste cose conosce molto. Quell’uomo è Francesco, Franco, Di Carlo, colonnello dell’esercito corleonese, specialista in quell’arte sopraffina nella quale l’uomo d’onore riesce meglio di tutti gli altri: la dissimulazione. Affiliato a vent’anni, capo non ancora trentenne, in auge dagli anni Sessanta fino alla metà degli anni Ottanta, finito in carcere in Inghilterra nel 1985 e rimasto in cella fino al 1996, Franco Di Carlo, divenuto collaboratore di giustizia, è stato il regista dei contatti dell’organizzazione con il mondo delle spie, i fantasmi che si agitano sullo sfondo dei grandi lutti siciliani e non solo.
Franco Di Carlo si è raccontato e molto, ma quello che compie qui è il disvelamento della trama di rapporti che ha intessuto da uomo d’onore e portato in dote, prima ai Corleonesi e poi a uno Stato che non aveva troppa voglia di ascoltarlo per non correre il rischio di guardarsi allo specchio e vedere il proprio volto peggiore e impresentabile, quello del compromesso. Con Di Carlo ho ricostruito la sua storia in un libro del 2010. Ma il rapporto non si è interrotto.
Molte cose non erano state dette e il mistero dichiarato sulle sue omissioni è stato l’argomento dei nostri successivi contatti. I suoi silenzi andavano esplorati, scandagliati e, se possibile, infranti. Chi ha avuto rapporti con i collaboratori di giustizia sa bene che non potranno mai riversare tutto quello che sanno in una sola tornata, fosse pure lunga alcuni mesi.
È la vita intera che gli si chiede di squadernare, perlopiù con riferimenti precisi a circostanze che già quando si verificavano erano per loro nient’affatto nitide. E poi c’è la prudenza, ovvero l’idea che quel tesoro di segreti, di particolari taciuti, di responsabilità omesse costituisca un salvacondotto. «Un sacco vuoto non può stare in piedi», dice spesso Di Carlo. Con ciò intendendo che ha dovuto amministrare la sua verità. Ha taciuto anche lui per convenienza.
Dal suo punto di vista, una misura di cautela che coincide con l’esercizio di autodifesa. Piaccia o no ai garantisti prêt-à-porter, è di questo che si discute quando si accetta – e non si potrebbe fare altrimenti – di addentrarsi nell’universo di una società segreta spesso con l’unico ausilio di chi ha deciso di rompere il patto di omertà che lo teneva legato a quel sodalizio.
Nulla va preso come oro colato, ma chi torna a strepitare a cadenze costanti sui collaboratori di giustizia, sulla loro attendibilità, sulla necessità che la smettano con le dichiarazioni a rate fino alla seduzione dell’argomento principe – può uno Stato affidarsi ai delatori e ai sicofanti? – sa bene che senza di loro il Paese sarebbe ancora quello che consegnò ai boia della mafia le migliori intelligenze del Meridione. E non solo.
I loro racconti presi singolarmente servono a poco: assurgono al rango di prove solo dopo un vaglio scrupoloso, un’attenzione maniacale al dettaglio, un incrocio sistematico dei particolari coincidenti con elementi di fatto. Nel metodo Falcone c’è anche la lezione su come questo lavoro possa essere condotto con successo. Su quelle sue verità nascoste o sepolte da una vita di ricordi che affiorano a fatica con Di Carlo abbiamo continuato a parlare.
Si potrebbero evocare categorie come la fiducia e i rapporti di lealtà che si instaurano tra persone che hanno avuto vite diverse che si sono incrociate. Ma questo forse al lettore, come è giusto che sia, può non interessare e in ogni caso non gli si può chiedere un atto di fede. Fatto sta che alcuni degli elementi che qui vengono disvelati per la prima volta e per intero, sono stati oggetto anche di interrogatori e articoli di giornale.
In due occasioni per «la Repubblica» ho intervistato Franco Di Carlo sui misteri rimasti tali anche dopo la pubblicazione di Un uomo d’onore. La prima nel giugno del 2012. Disse tra l’altro Franco Di Carlo: «Al processo Mori mi ha molto stupito la scelta del generale Subranni che ha preferito tacere. Questo la dice lunga sui personaggi ai quali si sono affidate le istituzioni.
Antonio Subranni è stato al centro delle più importanti inchieste in Sicilia e si comporta come quei soggetti di cui parlavo sopra, i mafiosi non affiliati». Ha scelto di tacere perché è indagato. Cosa c’è di strano? «Forse temeva che gli chiedessero come mai, in dieci anni, è passato da maggiore a generale. Forse temeva che gli chiedessero quali fossero i suoi amici, erano forse Salvo Lima e Nino Salvo. A me risulta di sì, e loro era no canali diretti di Cosa Nostra con il potere».
Sulle stragi del 1992, già allora dava una lettura netta: «So che dentro le istituzioni c’era una guerra aperta: da un lato gli uomini degli apparati, Servizi compresi, dall’altro Falcone e Borsellino e gli investigatori come Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli, ai quali i due giudici avevano delegato le indagini tagliando fuori tutti gli altri. Voi credete davvero che quegli uomini degli apparati, con tutti i contatti che aveva dentro Cosa Nostra, sia rimasta con le mani in mano ad aspettare che li arrestassero come accaduto con Contrada?».
Dopo la pubblicazione di quella intervista arrivò a «la Repubblica» una lettera anonima. Scritta in stampatello, con grafia artatamente malferma, conteneva una raccomandazione garbata che si concludeva con una minaccia: «Lasci perdere di scrivere assieme all’amico suo Franco Di Carlo storie passate. Tante volte fanno male!». Avvertii telefonicamente il 113 e dopo un po’ arrivarono due poliziotti a ritirare la lettera e la busta e a redigere un verbale annotando il nome delle persone che dalla portineria alla mia scrivania l’avevano maneggiata.
Poco dopo fui convocato alla squadra mobile di Palermo per formalizzare la denuncia e rispondere ad alcune domande. Mentre ero via dal giornale, i colleghi si interrogarono sull’opportunità di darne notizia. Mi chiamò al telefono il collega Salvo Palazzolo: ovviamente dava per scontato che l’episodio non andasse taciuto.
Gli dissi quel che pensavo e penso tuttora: nella mia attività di cronista ho ricevuto decine di anonimi su questo o quell’episodio, ma mai avvertimenti diretti in quella forma. Ho sempre considerato decisamente più preoccupante la possibilità che a zittirti sia una citazione milionaria in sede civile, che ti espone all’eventualità che l’editore per il quale lavori un bel giorno si renda conto di avere assunto un pianta grane dispendioso.
Raramente dagli anonimi ho tratto notizie utili. In genere per il senso di disgusto che mi provoca l’idea che qualcuno per viltà trami nell’ombra e non abbia il rigore civile di assumersi la responsabilità di quello che dice; e poi, se volete, c’è una questione etica superiore: chi scrive un anonimo è portatore di un interesse. Chi usa quelle informazioni si fa veicolo di un interesse che non conosce e non governa, col quale non può fare i conti e soppesarlo, e dunque una parte di quella funzione di mediazione tra la fonte e il lettore è affidata all’imponderabile.
Dunque, probabilmente, se quella lettera che mi era stata recapitata avesse riguardato soltanto me, l’avrei gettata nel cestino a fine giornata. Ma la lettera chiamava in causa un uomo sottoposto ancora a un regime di protezione personale. Non potevo assumermi una responsabilità per conto terzi. Per qualche ora, per fortuna poche, ho vissuto il clima di solidarietà e di sostegno che circonda chi è “minacciato”. Io stesso mi ero unito al coro, quando altri colleghi, con ben altri mezzi, erano stati intimiditi.
La verità è che mi infastidiva la notorietà che derivava non dall’attività professionale ma dall’essere entrato nella schiera dei “minacciati”, quasi che anni di lavoro non valessero nulla e una lettera anonima di un qualche codardo annidato in chissà quale ufficio potesse consegnarmi fama e gloria senza che nessuno si prendesse la briga di verificare cosa avessi scritto e di che cosa si stesse veramente parlando. L’unica cosa che dissi in quel momento – e che ripeto qui – è che valeva la pena di andare avanti, che se qualcuno preferiva il silenzio allora forse viaggiavamo nella direzione giusta.
Attraverso l’avvocato Ermanno Zancla avvertii Franco Di Carlo, e alla prima occasione di incontro gli dissi che doveva valutare la possibilità di raccontare ancora, di ricordare altri dettagli, di fare altri nomi, anche quelli che per calcolo e paura aveva omesso. Di svuotare, insomma, quel sacco che è la sua memoria, abbandonando per un po’ quella che è una sua massima di vita: «Un saccu vacanti nun sta aggritta», un sacco vuoto non sta in piedi. Non si è tirato indietro.
E, per quel che vale, non credo che glielo imponesse neppure una ragione di calcolo personale: ha scontato la sua condanna, ha chiuso i conti con la giustizia, le testimonianze su quel che ha raccontato via via si diradano con il concludersi dei processi, la sua conoscenza supporta di tanto in tanto ancora le nuove istruttorie che si vanno svolgendo.
È stato considerato credibile e sa bene che queste rivelazioni comporteranno nuovi test sulla sua autenticità. Insomma, potrebbe avviarsi al pensionamento. Ma ho idea che la prospettiva non lo alletti: un po’ perché questa è ormai la sua vita da parecchi anni, e soprattutto perché si rende conto che c’è tanta gente in giro che non ha veramente capito cosa è stata e forse in parte è ancora Cosa Nostra. Della lettera si è occupata la Direzione distrettuale antimafia di Palermo.
L’anonimo aveva ragione su un punto: si tratta di storie passate e dolorose. Capaci di riaprire ferite e di coinvolgere persone che sono rimaste ai margini. O peggio, sono morte, non tutte, e non possono difendersi in prima persona, ma con l’oblio che si deve ai morti non si può rischiare che i vivi la facciano franca. Così è stato inevitabile andare indietro nel tempo, rintracciare nella guerra di nervi e tritolo che si avvia nel 1988 l’inizio della parabola che porterà agli eccidi del 1992 e alla teoria di misteri che si portano ancora dietro.
Un ulteriore avvertimento – dello stesso tenore – è arrivato quando sempre su «la Repubblica» nel 2014 raccontai un’altra delle confidenze fattami da Di Carlo e di cui parleremo più avanti. Anche in questo caso denunciai. Ho scoperto solo di recente che della seconda lettera circolava una copia indirizzata a Di Carlo, recapitata agli uffici di polizia e della quale nulla si sarebbe saputo se, denunciando quella che era arrivata a me, non si fossero avviate delle indagini. È anche per via di questi due episodi se in questo racconto si è cercato di valorizzare il dettaglio, che offre lo spunto per una puntuale verifica di attendibilità su quanto Di Carlo ha ora deciso di raccontare.
Un testimone, una circostanza di fatto, un incrocio di date, permettono a chiunque ne abbia voglia di verificare se ci sono incongruenze, se ci sono menzogne. Perché non solo di morti che non possono replicare si parla. Come sarebbe comodo sostenere per rinunciare a verificare se ci sono sprazzi di verità nelle sue parole. Di Carlo sa bene che gli chiederanno: perché non ha par lato prima? Perché non ha detto queste cose quando è stato interrogato la prima volta?
Sicuri che io non ne abbia mai parlato? Siete certi che io non abbia mostrato più di un’apertura a dialogare su questi temi? Ho temuto molte volte per la mia vita, ma mai quando mi sono reso conto di essere il custode delle identità di chi nello Stato ha mosso la guerra a un’altra parte dello Stato. Ho visto in carcere uomini delle istituzioni che volevano da me la chiave d’accesso al cuore di Cosa Nostra. Li ho accontentati, ma quando mi sono reso conto che quei contatti erano stati utilizzati per altro, ho avuto la prova che il gioco si era fatto più grande di quanto immaginassi.
Ero certo che dopo l’omicidio di Ignazio Salvo e lo strano suicidio di Nino Gioè io sarei stato il prossimo della lista. Ho rischiato in prima persona e quando ho deciso di collaborare sono stato sottoposto a un regi me di sorveglianza massima, con il cibo comprato specificamente per me, controllato da persone di assoluta fiducia del direttore e cucinato da me in totale solitudine. Avevano paura che finissi come Sindona? Già dopo i primi verbali ho avuto la netta sensazione che il Paese non fosse pronto ad affrontare tutta la verità, perché nelle istituzioni lavoravano e lavorano uomini che hanno trattato con noi da sempre.
La mia reticenza è stata una forma di prudenza, quando ho percepito che al di là della volontà dei singoli magistrati che venivano a interrogarmi, lo Stato nelle sue articolazioni aveva paura di ammettere quello che ogni uomo d’onore sa dal primo momento in cui viene punciutu, ovvero affiliato, con il rito tradizionale della puntura sull’indice della mano destra, il dito con cui si preme il grilletto: non c’è differenza tra noi e loro, non ci sono distanze, non ci sono steccati che non si possano superare.
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