Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa una settimana questa nuova serie sarà dedicata al Festival di Trame 2025


Nel gennaio 2025, un'importante operazione antidroga ha smantellato una vasta rete criminale italo-albanese attiva nel traffico internazionale di cocaina dal Sud America all'Europa. L'indagine, avviata nel 2020 e coordinata dalla Procura della Repubblica di Brescia con il supporto di Eurojust e delle autorità albanesi, ha portato all'arresto di 12 persone e al coinvolgimento di 40 indagati tra italiani e albanesi.

La droga veniva trasportata via nave fino al Nord Europa e poi introdotta in Italia attraverso autoarticolati, con destinazione finale nelle province di Brescia, Milano, Novara e Verona. I vertici dell'organizzazione, due fratelli albanesi, gestivano le operazioni dal Sud America e da Dubai, coordinando un sistema logistico sofisticato che includeva l'utilizzo di autisti di pullman sulla tratta Brescia-Elbasan per il trasferimento dei proventi illeciti. Qualche mese prima, un’operazione coordinata da Europol portò invece all’arresto di oltre 60 membri di una potente rete criminale albanese, attiva in almeno dieci Paesi europei.

Da anni, l’Albania occupa una posizione centrale nelle rotte del narcotraffico, del contrabbando e del riciclaggio. I clan albanesi si sono imposti con uno stile operativo efficace, flessibile, spesso più veloce rispetto a quello delle mafie tradizionali. Parlano più lingue, si muovono con disinvoltura tra Tirana, Bruxelles e Anversa, stringono alleanze funzionali con la ’Ndrangheta, la Camorra e, sempre più spesso, con cartelli sudamericani o reti nigeriane.

In molte inchieste italiane, il “partner albanese” ricorre come figura chiave: affidabile, discreto, radicato nel territorio ma con un respiro europeo. Non si tratta solo di logistica o manodopera: i gruppi albanesi partecipano alla gestione diretta dei traffici, investono, riciclano, prendono decisioni. Non sono gregari, sono player.

Eppure, parlare solo della loro dimensione operativa rischia di essere riduttivo. Le mafie non nascono dal nulla: si alimentano di disuguaglianze, sfiducia, opportunismi. In Albania, il terreno è fertile. Le promesse dell’integrazione europea hanno lasciato spazio alla frustrazione. La disoccupazione giovanile resta alta, l’emigrazione è costante, la corruzione diffusa. In questo vuoto, le organizzazioni criminali offrono qualcosa che lo Stato non garantisce: reddito, protezione, identità.

Ed è proprio in questo spazio che la società civile può fare la differenza. Da anni, la Global Initiative Against Transnational Organized Crime (GI-TOC) lavora in tutto il mondo con un approccio centrato sulla prevenzione sociale. Attraverso il Resilience Fund, l’organizzazione sostiene ONG locali, centri giovanili, attivisti e insegnanti che provano a costruire alternative reali nei territori più esposti al reclutamento criminale.

In Albania, un esempio concreto è quello del Centro Giovanile di Valona, che coinvolge ragazzi e ragazze in attività culturali, educative e di cittadinanza attiva. In un contesto dove le mafie offrono modelli di vita rapidi e seducenti, creare spazi di partecipazione e fiducia è un atto politico. Eppure, queste realtà spesso operano in solitudine, con fondi limitati e scarsa attenzione istituzionale.

Non è più sufficiente parlare genericamente di prevenzione. Serve un impegno strutturale, duraturo, riconosciuto. La sicurezza non può basarsi solo su repressione e controllo: deve poggiare anche su educazione, partecipazione e giustizia sociale. Le politiche di contrasto devono dialogare con quelle di inclusione.

L’Albania, oggi, è uno specchio delle contraddizioni europee. Da un lato esporta criminalità organizzata su scala continentale, dall’altro importa modelli repressivi che ignorano le cause profonde del fenomeno. L’Italia, che con l’Albania condivide uno spazio politico e criminale sempre più integrato, non può permettersi di guardare altrove.

Contrastare le mafie albanesi – o qualunque altra rete transnazionale – richiede un cambio di paradigma: non solo polizia e giustizia penale, ma anche comunità, coesione sociale, società civile. Senza queste componenti, ogni strategia sarà parziale. E continueremo, come spesso accade, ad arrivare tardi.

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