Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.


È una mattinata piovosa, e dall’aeroporto ci portano direttamente in quella che sarà la base del gruppo di lavoro: un edificio rettangolare a due piani dove una volta aveva sede il Commissariato di polizia “Duomo”.

Si trova tra corso Vittorio Emanuele, dove si arriva percorrendo lo strettissimo vicolo del Lombardo, e il mercato di Ballarò. Il cortile dell’ex Commissariato confina con quello della Caritas, che ospita un asilo multietnico dove giocano bambini multicolori, accomunati da un dialetto palermitano che padroneggiano meglio dei loro genitori.

Che bello, quell’asilo! Mi pare il simbolo stesso della Sicilia, che ha visto passare nel corso dei millenni coloni, conquistatori e migranti, e da ciascuno ha preso una parola, un modo di dire, un’espressione artistica, un’idea, dove tutto si è fuso in un prodotto nuovo e unico che ha tuttavia conservato, ben distinguibili, i caratteri propri e l’identità delle diverse civiltà.

Alle spalle del nostro Duomo, verso il mercato di Ballarò, il Liceo Scientifico Benedetto Croce, e sull’altro lato una scuola elementare e media. Il gruppo occuperà tutto il piano terreno, perché di sopra ci lavorano alcuni colleghi della sezione criminalità organizzata della squadra mobile.

Un piccolo corpo di guardia protegge un lungo corridoio sul quale si aprono, sul lato destro, sette stanze; l’ultima parte del corridoio è chiusa da una porta, ed è diventata a sua volta una stanza, più piccola, da dove si transita per entrare in quella del dirigente.

Renato Cortese e i suoi 

Renato Cortese lo conosco, ma non benissimo: l’ho visto qualche volta a Roma e l’ho incontrato alla Squadra Mobile di Palermo qualche mese prima, al ritorno da una missione nell’interno della Sicilia.

Il gruppo lo dirigerà lui, per continuità nelle indagini, perché le ricerche di Bernardo Provenzano vanno avanti già da qualche anno, con la Catturandi. A fine gennaio loro hanno chiuso l’operazione “Grande Mandamento”, arrestando una cinquantina di persone, mafiosi e favoreggiatori tra Bagheria, Palermo e la provincia.

A Provenzano ci sono andati vicini, anzi vicinissimi, ma ancora una volta “Binnu” aveva fiutato il pericolo e se ne erano perse le tracce. Gli uomini del gruppo sono stati scelti da Cortese e sono tutti della Catturandi, ma non la sezione al completo, e la cosa ha destato qualche malumore tra gli esclusi, com’è naturale, e qualche altro malumore è nato per la presenza, nel gruppo, di personale del Servizio Centrale Operativo, e non gli si può dar torto.

Ancora una volta mi trovo nella situazione di chi arriva in un posto che conosce poco, a lavorare su ambienti criminali che magari un po’ comprende, ma di certo non con la padronanza di chi, invece, professionalmente è cresciuto a pane e latitanti.

È sabato, e il Duomo è pieno di tecnici e di operai: stanno montando scaffalature che ospiteranno i faldoni della vecchia indagine e quelli della nuova, sistemano i cablaggi dei computer per le intercettazioni telefoniche, i monitor per le telecamere e la saletta per i colleghi incaricati di riascoltare le conversazioni intercettate.

La giornata è prefestiva, il lavoro investigativo vero e proprio non è ancora iniziato e dei colleghi della Catturandi sono presenti solo quattro o cinque, che conosco di nome e di fama: me ne ha parlato Pippo, che conosco dai tempi delle scorte a Francesco Marino Mannoia e che da parecchi anni è stato trasferito nel mio ufficio, alla mia sezione: lui viene dalla squadra mobile di Palermo e a Palermo conosce tutti: è nel gruppo anche lui.

Renato Cortese fa le presentazioni, che si concludono come di prassi al bar; andiamo al Kaleido, in corso Vittorio.

Ci si arriva percorrendo il vicolo del Lombardo, una viuzza strettissima tra due palazzi vicinissimi tra loro, col risultato che è sempre in ombra: è una specie di camino naturale dove il vento si infila tutto l’anno, e sbuca quasi di fronte alla Cattedrale di Palermo, offrendo un colpo d’occhio che mi lascia senza fiato: un lato della piazza è occupato dal Liceo Classico Vittorio Emanuele II, un’architettura geometrica e austera, seria come la scuola che ospita e come ci si aspetta debba essere un liceo; di fronte, sull’altro lato della piazza, l’Arcivescovado, e a coprire il tutto un cielo sempre azzurro dove spiccano, a dar lavoro agli obiettivi fotografici dei tanti turisti, le sagome di altissime palme e i contorni della Cattedrale. Imparerò a conoscerli bene, quei luoghi intorno al mio nuovo ufficio: i negozi che si affacciano sul corso, il Kaleido, l’ottico Punto di Vista, di cui conservo ancora la tessera fedeltà, la libreria delle Paoline, la farmacia, l’Isola Saporita, l’armeria, il bar Marocco e tutti gli altri, ma per ora è solo uno sguardo di sfuggita.

Per oggi è tutto, mi vado a sistemare provvisoriamente in un alberghetto, a Ballarò, e penso alle difficoltà che mi aspettano. Nei giorni successivi conosco i nuovi colleghi: non è una squadra di centravanti, è una squadra, e in ciascun ruolo Renato Cortese ha scelto quanto di meglio poteva senza spogliare la Catturandi, perché quelli che sono rimasti a lavorare lì, negli uffici della Mobile, hanno le stesse caratteristiche dei prescelti.

Tra noi non ci sono nomi di fantasia, e mi dispiace deludere chi è convinto che chi fa questo lavoro abbia un nome di battaglia; no, ci si chiama per nome: Tommaso, Giuseppe, Alfonso, Paolo, Luigi, Salvatore, Luciano, Fabio, Adriano, Vincenzo, Rosario, Vittorio, Maurizio e così via.

I nomi di battaglia appartengono alle fiction, perché il pubblico li ama, ma questa è una cronaca, e nelle cronache al massimo ci sono i soprannomi, legati a caratteristiche fisiche, caratteriali, dell’abbigliamento: “er Pomata”, “er Caciara”, “il Cammello”, “l’Imperatore”.

Un reparto investigativo d’eccellenza

Ho la qualifica di Sostituto Commissario, che nel gruppo è la più elevata dopo quella di Renato Cortese, ma mi rendo conto che ciascuno degli specialisti della Catturandi ha molto da insegnarmi dal punto di vista tecnico, e allora busso, chiedo permesso, ed entro in punta di piedi.

La squadra mobile di Palermo, nel 2005, è un reparto investigativo d’eccellenza e all’avanguardia: lavorano con microspie e telecamere di ultima generazione, almeno per gli standard della Polizia, e vedo con sollievo che la tecnologia ha fatto sensibili progressi dai tempi in cui, a Corleone, andavamo rubando la Fiat Uno dei Provenzano quasi tutte le notti: avrò molto da studiare per rimettermi in pari, ammesso che ci riesca.

Però posso occuparmi delle carte, di tutto quel lavoro noioso, ripetitivo, sedentario e indispensabile, che di solito non vuol fare nessuno, e nessuno di sicuro si offenderà se intanto me ne prenderò l’appalto, mettendomi a disposizione per il resto.

Il turno di marzo passa in fretta, si pianifica il da farsi e come iniziare: intercettazione dei colloqui in carcere di molti degli arrestati di “Grande Mandamento”, perché se favorivano Provenzano quando si nascondeva a Bagheria potrebbero avere qualche informazione che può ancora tornarci utile.

È un lavoraccio, dal punto di vista anche delle carte: per ciascun colloquio di ogni detenuto bisogna prendere contatto con il carcere dove si trova, interpellare le ditte che forniscono le microspie e le telecamere, farsi mandare i preventivi di spesa e portarli alla procura della Repubblica, che deve valutare e autorizzare caso per caso, recuperare i Cd con le registrazioni dopo i colloqui, occuparsi di chiedere eventuali proroghe, perché le prime autorizzazioni valgono quaranta giorni, le successive venti, e tanto le richieste iniziali quanto quelle per le proroghe vanno tutte e sempre motivate.

Iniziano anche le intercettazioni telefoniche: si discute se lasciare l’incarico di seguire quelle dei familiari del latitante al Commissariato di Corleone; dico che secondo me sarebbe preferibile avere notizie di primissima mano, anche gli altri sono d’accordo, anche perché piste calde da seguire non ce ne sono, per il momento. Nel gruppo funziona così, tutti devono essere a conoscenza di quello che si sta facendo, del perché lo si sta facendo e di come si intende proseguire a farlo; si ascoltano i pareri, poi si decide.

I componenti del gruppo sono intercambiabili tra loro, ma in ciascun settore ci sono i punti di riferimento, per le intercettazioni telefoniche individuo Alfonso: lui ascolta e riascolta tutto all’inizio di ogni turno, fa collegamenti, ricerca nelle vecchie conversazioni elementi che possano far luce su alcuni dialoghi poco comprensibili e, grandissima dote, quello che trova lo mette per iscritto, per futura memoria sua e degli altri. Al riascolto, che forse è il settore dove si nascondono le informazioni più utili, il riferimento è Totò.

Il riascolto è per così dire il cuore di un’indagine: tutto ciò che viene raccolto con le microspie e ascoltato, quando possibile, in diretta, finisce nella sua saletta; lì ogni conversazione viene ripulita da fruscii, scariche e rumori di fondo e viene sentita una, due, dieci, cento volte, al bisogno.

Sono incredulo, mi fanno provare: ascolto dieci secondi di quello che a me sembra il rumore del vento e delle voci indistinte e lontane. Totò mi guarda e chiede: – ’U capisti? – poi, come colto da un improvviso dubbio anche sulla mia competenza linguistica – Hai capito? – si affretta a tradurre. Lo guardo perplesso: mi sta sfottendo? No, è serissimo, manda indietro il cursore della traccia sul monitor e mi fa riascoltare, mi aggiusta le cuffie, rallenta la velocità, regola i toni, ma per me non cambia niente, rumori erano e rumori restano.

Mi aiuta, scandisce lentamente le parole che lui sente, fa ripartire il file audio; ora le colgo, stupito come un bambino.

Non ho passato il primo esame, ma Totò è indulgente, sa che non è facile. Però guai a disturbarlo mentre riascolta: tutti passiamo in punta di piedi davanti al suo minuscolo regno, funzionari compresi, e sono pochi quelli che si azzardano a contraddirlo nell’interpretazione: se nascono dubbi, i riascolti vanno avanti a oltranza, fino a quando tutti non sono convinti.

A volte succede che qualcuno nutra qualche dubbio, ma se lo va a chiarire a tarda sera, quando Totò non c’è. Nel gruppo ci sono due ispettori superiori della Catturandi, esperti e carismatici: uno più diretto, l’altro più diplomatico; tutti e due provengono dai gradi iniziali della Polizia e hanno fatto carriera a suon di promozioni ottenute sul campo, a differenza di quanto è successo a me, entrato nell’Amministrazione già con la qualifica di “ispettore”.

Fare carriera partendo dal basso comporta più tempo, ma impari a fare di tutto, a capire meglio le difficoltà di un lavoro e i problemi di chi lo deve svolgere, sei in grado di spiegare come si fa e come vuoi che venga fatto, e poi la strada maestra per imparare a comandare è iniziare obbedendo.

Mi accompagnano in procura e mi presentano ai magistrati che dirigono l’indagine, Giuseppe Pignatone è il Procuratore Aggiunto, che già conoscevo da altre vecchie attività, Michele Prestipino e Marzia Sabella. Conosco anche il personale della segreteria, Mariangela, Rita, Sandro, Giuseppe; non è solo personale del Ministero della Giustizia, ma anche della polizia e della “municipale” e anche loro sono una “squadra”; l’impressione che ricevo mi spinge all’ottimismo: se ognuno fa il suo e se si rema tutti a tempo e nella stessa direzione, strada se ne può fare. Alla fine del primo turno, risalgo a Roma più sereno di quando sono partito. […].

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