Il giudice utilizzava abitualmente due databank, uno Sharp e un Casio, protetti dalla password Joe. Di quest’ultimo non è stato trovato né il cavetto di collegamento al computer né l’estensione di memoria. Ma soprattutto la memoria dell’apparecchio era stata totalmente cancellata. Si è scoperto che conteneva appuntamenti fissati per date successive al 23 maggio...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.
A questo particolare aspetto delle operazioni di Gladio si interessava Giovanni Falcone prima di lasciare Palermo, sul finire degli anni Ottanta e anche dopo. Alla Procura di Palermo fu il capo, Pietro Giammanco, a bloccarlo, ma per quel che se ne sa Falcone non si era fermato. C’erano tracce dei suoi interessi su questo filone di indagine nel databank manomesso dopo la sua morte e reso leggibile dalle indagini del vicequestore Gioacchino Genchi e dell’ingegnere Luciano Petrini, un tecnico «imposto dal ministero», un esperto «della Computer Micro Image, società che lavorava, tra gli altri, per conto dei servizi segreti». In quella intervista, Fornaro racconta anche che «era estate, lo scandalo [legato alla rivelazione dell’esistenza di Gladio], appena esploso», quando Falcone trascorse una intera giornata nella sede del Sismi a incrociare dati sui nomi dei gladiatori. «Ma niente. Non c’era niente», è sicuro il colonnello. Era l’estate del 1991 e forse l’elenco di cui disponeva Falcone era incompleto. Come lo è la lista dei piduisti, sommaria e monca per ammissione dello stesso Gelli – morto ad Arezzo a novantasei anni, il 15 dicembre 2015 –, priva dei fascicoli che avrebbero documentato le gesta dei singoli “fratelli” al servizio della loggia.
Ma quella dei gladiatori, 622 nomi – «tendenti a 1.000, più altri 1.000 mobilitabili», recitava il protocollo costitutivo che ipotizzava uno sviluppo fino a tremila uomini complessivi –, è ancora più sfuggente. Indignati per la pubblicazione delle liste, alcuni gladiatori uscirono allo scoperto, contestando di aver svolto alcunché di illegale, ma i misteri e le ombre sull’utilizzo di un corpo paramilitare per scopi non proprio convenzionali resta.
E di mistero in mistero resta intatto quello sulle memorie informatiche di Giovanni Falcone. Il giudice utilizzava abitualmente tre computer, un Olivetti da tavolo al ministero e due portatili, un Toshiba e un Compaq, oltre a due agende elettroniche, due databank, uno Sharp e un Casio, protetti dalla password Joe. Di quest’ultimo non è stato trovato né il cavetto di collegamento al computer né l’estensione di memoria. Ma soprattutto la memoria dell’apparecchio era stata totalmente cancellata. Per recuperarne il contenuto è stato necessario chiedere aiuto agli uffici milanesi della Casio. Si è scoperto così che conteneva appuntamenti fissati per date successive al 23 maggio: difficile dunque che a cancellare la memoria dell’agenda potesse essere stato Falcone. Il databank Casio, così come il Toshiba, sono stati ritrovati dai familiari nella casa palermitana di Falcone, in via Notarbartolo, e consegnati qualche giorno dopo la strage.
Nel Toshiba era stato installato – certamente dopo la morte del giudice – un programma per intervenire sui file. L’esame del Compaq rivela che qualcuno ha aperto quel computer dopo la strage di Capaci. Lo dicono le date di salvataggio di alcuni documenti, 9 giugno. Se ci si fosse limitati ad aprire e chiudere i documenti non sarebbe successo nulla, ma chi ha frugato nel computer o è uno sprovveduto o ha voluto intenzionalmente lasciare traccia del proprio passaggio.
Il Compaq si trovava nell’ufficio di Falcone a Roma e della sua presenza c’è traccia nella relazione che accompagna l’ispezione degli uomini del Servizio centrale operativo della polizia (Sco) nella stanza, il 30 maggio 1992. Ma il computer non viene sequestrato. Lo sarà solo quasi un mese dopo, il 23 giugno, ad opera dei carabinieri. Tra i documenti aperti e salvati il 9 giugno, quando Falcone era già morto, ci sono proprio le schede con i nomi dei gladiatori.
E atti sull’omicidio di Emanuele Piazza e sul delitto Mattarella. Ma non è tutto. Dalla memoria cancellata del Casio viene fuori un viaggio americano di Falcone che comincia con un volo Roma-Washington annotato per il 28 aprile 1992, una festa all’ambasciata inglese in Usa per le 19,30 dell’indomani e poi ancora l’indicazione “Usa” per il giorno successivo e per il primo maggio. Come vedremo, questo viaggio americano è avvolto dal mistero. Chi ha frugato tra le carte di Falcone dopo la sua morte lo ha fatto in modo da lasciare traccia. «Ove si suppone un’operazione maldestra bisogna bilanciare la malafede, l’incapacità o la volontà di dissimulare simulando, perché a volte ci si può fingere estremamente imbecilli per far sembrare tutto quello che si fa frutto di un’attività puerile», ha spiegato in proposito Gioacchino Genchi ai giudici del primo processo per la strage di Capaci, durante la deposizione d’aula dell’8 e 9 gennaio 1996. La impellente necessità di frugare nella memoria informatica di Falcone viene avvertita dalla Procura di Caltanissetta a partire dal 24 giugno del 1992, quando «Il Sole 24 Ore» pubblica due pagine di appunti che Falcone ha consegnato, nel luglio 1991, alla giornalista Liana Milella.
In quelle due pagine stampate al computer ci sono riferimenti alle difficoltà frapposte da Pietro Giammanco, il capo della Procura – negli appunti sempre e solo “Il Capo” –, alla prosecuzione dell’indagine Gladio. In realtà dell’esistenza di un diario sugli anni impossibili a Palermo, sotto Giammanco, ha già parlato cinque giorni prima Giuseppe Ayala. Ne ha confermato non solo l’esistenza ma il nocciolo del contenuto, ovvero il motivo per cui Falcone ha deciso di andare via da Palermo. In una parola: l’isolamento. In uno stillicidio di voci una cosa sembra certa: quel diario fa paura, chi lo ha o non vuole divulgarlo per proteggere qualcuno o ha paura a farlo.
L’articolo della Milella svela che quello di cui si discute in quei giorni è drammaticamente reale ed è un lascito morale. Del resto, come scrive Falcone nel diario, la scelta di Roma è tutt’altro che una rinuncia: «Alla mafia, anche da qui [dal ministero, a Roma], si può dare molto fastidio». Proprio quello che pensava Borsellino del suo amico. Nessun ripiegamento su una posizione di comodo, nessuna rinuncia a indagare e a incidere. Genchi e Petrini hanno condotto la perizia a partire dal 14 luglio e già a ottobre del 1992 hanno la chiave di accesso al databank di Falcone, ma a dicembre il superesperto informatico della polizia ha avvertito tutta l’ostilità per quel che è riuscito a scoprire.
Il 7 dicembre scrive così al questore di Palermo una nota riservata: «Ebbene, io da qualche mese mi accorgo proprio di essere, forse inconsciamente, entrato in un gioco troppo grande, di non disporre di alcuna alleanza, di non avere alcun sostegno e di avvertire sempre meno la considerazione della solidarietà dell’Amministrazione dalla quale dipendo».
La Criminalpol dalla quale dipendeva non gli garantisce alcuna assistenza e arriva anche il trasferimento al reparto Celere che coincide proprio con la scoperta del viaggio americano di Falcone. A notificargli il provvedimento è il questore Matteo Cinque, che dice di temere per la sua sicurezza, ma la prima firma è quella del capo della polizia.
Tre mesi dopo la testimonianza in aula, Luciano Petrini, l’ingegnere che con Genchi aveva svelato le manomissioni dei computer di Falcone e che da solo si era occupato del giallo di via Poma a Roma, viene trovato morto nella sua camera da letto, ucciso, probabilmente nel sonno, dai colpi inferti con il portasciugamani del bagno. In casa non manca nulla e tutto, a parte il letto, sembra in ordine. Discreto, riservato, Petrini aveva convissuto fino a qualche tempo prima nella casa al quarto piano di via Pallavicino, zona Portuense, con l’amico che lo troverà cadavere.
Un vicino racconta di averlo visto uscire di casa con un biondino più giovane. E tanto basta per dare la caccia al fantasma e archiviare il caso come un delitto maturato nel mondo gay. Un classico italiano.
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