Rimasto l’unico a sostenere che Dell’Utri non è solo vicino a Cosa Nostra ma ne fa parte organicamente, che è un uomo d’onore, affiliato secondo tradizione con i capibastone della vecchia mafia, Stefano Bontate e Mimmo Teresi a fargli da padrini. Ha raccontato di una colletta da 20 miliardi di lire e dei soldi mandati a Milano per finanziare l’ascesa imprenditoriale di Silvio Berlusconi
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.
L’ultimo tabù infranto lo si deve a una consapevolezza.
Iniziai a capire che c’era chi aveva voglia di fare sul serio quando mi capitò di leggere cosa aveva detto nel luglio del 2012, in occasione del ventennale della strage di via D’Amelio, il procuratore generale Roberto Scarpinato: erano parole forti che andavano al cuore del problema, pensai che non sbagliavo a superare le ultime remore incamminandomi su una strada difficile, irta di ostacoli e anche molto pericolosa.
Sotto forma di lettera ideale a Paolo Borsellino, disse tra l’altro Scarpinato: «Abbiamo portato sul banco degli imputa ti e abbiamo processato gli intoccabili: [...] Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi, un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno. [...] Hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito. Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvato re Riina.
Hanno preferito che finissero nelle mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura. [...] hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità».
Parole che costarono a Scarpinato l’apertura di un fascicolo al Csm chiusosi con l’archiviazione. Il laico del Pdl Nicolò Zanon, promotore dell’apertura di un procedimento disciplinare ma astenutosi alla votazione finale, bollò quella lettera come espressione di quel mondo che «chiede consenso alla piazza», costituito da chi si mette «sulle spalle dei giganti o all’ombra degli eroi morti per poter dire qualunque cosa e godere di una sorta di salvacondotto da nani sulle spalle dei giganti». In quella lettera «di inusitata animosità», disse, echeggiano accenti alla Robespierre, «ma il terrore giacobino per me non è un modello culturale e comunque Robespierre fu ghigliottinato da qualcuno che si sentiva più puro di lui».
Io – dice Di Carlo – non sono un ragazzino sprovveduto che ai primi investigatori o magistrati che si presentavano davanti andavo a raccontare la trama in corso alla fine degli anni Ottanta. Non bi sogna dimenticare qual era il clima all’inizio della mia collaborazione: nella politica e nelle istituzioni c’era chi invece di lottare contro Cosa Nostra continuava a praticare il doppio gioco con mentalità mafiosa, combattevano i collaboratori di giustizia e le leggi che li sostenevano, proprio quando i collaboratori avevano iniziato a par lare degli intoccabili. Quando ho constatato il marcio che ancora c’era dentro le istituzioni, che nulla era cambiato rispetto agli anni in cui ero in Italia, ho fatto una virata a 360 gradi per non fare la fine di un topo dentro una gabbia che io stesso, con le mie dichiarazioni, mi sarei costruito.
Di sicuro le migliaia di pagine che ha riempito tra interrogatori e deposizioni d’aula, ricostruendo il contesto di decine di cosiddetti delitti eccellenti, contengono molti riferimenti che avrebbero consentito di aprire la porta del patto inconfessabile tra Stato e mafia già da qualche anno. E di mettersi alla caccia di chi, coperto politicamente, più che fare la lotta alla mafia ha combattuto l’antimafia.
Franco Di Carlo ha vissuto tra la gente, facendo il proprio mestiere di uomo d’onore, ha incontrato e frequentato la crème della società siciliana e ci è andato a braccetto. Ha conosciuto e frequentato Marcello Dell’Utri, il senatore braccio destro di Silvio Berlusconi condannato per con corso mafioso. Ed è rimasto l’unico a sostenere che Dell’Utri non è solo vicino a Cosa Nostra ma ne fa parte organicamente, che è un uomo d’onore, affiliato secondo tradizione con i capibastone della vecchia mafia, Stefano Bontate e Mimmo Teresi a fargli da padrini. Ha raccontato di una colletta da 20 miliardi di lire organizzata dal capo delle famiglie di Palermo, Stefano Bontate, e dei soldi mandati a Milano per finanziare l’ascesa imprenditoriale di Silvio Berlusconi.
È stato testimone diretto, nel 1974, dell’incontro tra Bontate e Berlusconi, presente Dell’Utri, durante il quale fu presa la decisione di mandare Vittorio Mangano, “lo stalliere”, a vigilare sulla sicurezza del palazzinaro milanese. Ha saputo, dopo la morte di Bontate nel 1981, della ricerca affannosa di quei soldi da parte dei finanziatori di quell’operazione, ha parlato dei fratelli Graviano, interessati a incassare i dividendi di quella colletta alla quale aveva partecipato il padre. Ha parlato delle stragi di Ustica e di Bologna e del caso Calvi, ovvero della fine del presidente del Banco Ambrosiano, trovato morto, maldestramente impiccato, sotto al ponte dei Frati Neri a Londra.
Del delitto Calvi è stato accusato e poi scagionato, indossando i panni del testimone privilegiato. Ha poi riferito degli interessi di uomini dei servizi segreti stranieri all’attività di Giovanni Falcone e della proposta dell’agente siriano Nizar Hindawi di partecipare a un eventuale piano per la morte del giudice. Ha gettato un fascio di luce che non allontana la responsabilità di Cosa Nostra, ma rischiara anche il contesto.
Possibile che in un Paese sotto costante osservazione straniera, dove 007 di bandiere le più disparate si sono mossi indisturbati, possibile che in un Paese così la mafia da sola maneggiasse esplosivo militare e mettesse a ferro e fuoco città su città senza che nessuno abbia visto o sentito nulla? Fiutato il pericolo, avvistato il rischio?
Invece il contesto internazionale rimane sempre costantemente in ombra. È un curioso effetto ottico quello che prende il Paese: se dici terrorismo, gli orizzonti si allargano a dismisura. Ma se dici mafia, allora l’occhio si concentra sull’ombelico italiano. Vedi muovere squadroni della morte in grado di determinare non solo lutti e devastazione ma un clima politico diverso, con conseguenze istituzionali pesantissime, e gli analisti si affannano a chiudere l’orizzonte di osservazione, a ripiegare sul nostro piccolo mondo, come se a duemila o a diecimila chilometri di distanza da Roma quegli effetti non dispiegassero conseguenze, come se il resto del mondo fosse improvvisamente indifferente alla situazione di un Paese che per tutti rimane strategico negli assetti geopolitici dell’intera Europa e del Mediterraneo.
Di Carlo ha sì ricostruito il quadro delle bombe del 1992 e indicato la pista che porta alla sua famiglia mafiosa, quella di Altofonte. Eppure mai, fino ad ora, gli era stato chiesto di spalancare quella porta lasciata socchiusa che permette di gettare lo sguardo più in là. Rimane uno dei pochi, se non l’unico, a evocare uno scenario internazionale intorno ai fatti italiani.
Da uomo d’onore, Franco Di Carlo ha utilizzato ogni conoscenza, ogni dettaglio per raggiungere uno scopo preciso: garantire col dialogo ciò che le armi e la violenza non assicura vano. Ha blandito, corrotto a suo modo, convinto e minacciato. Ha cooptato nella rete dei fiancheggiatori di Cosa Nostra i pezzi pregiati dell’intelligenza siciliana, li ha asserviti alla logica del favore, li ha stretti nella morsa della compiacenza.
Con sistemi come questi, Cosa Nostra ha consolidato quello che è sempre stata, un pezzo rilevante della società, non qualcos’altro, di lontano e diverso, ma una componente, per alcuni anche preziosa, della Sicilia e dell’Italia del potere. Qualcosa di molto simile a una lobby, ma – e il “ma” è importante – con la santabarbara pronta all’uso. Un partner ineludibile e imprescindibile per intere classi dirigenti, un alleato, scomodo a volte, comunque tanto mu nifico quanto pretenzioso.
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