Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


Il partito aveva, per mio padre, una dimensione avvolgente, quasi totalizzante. Era l’altra famiglia. Raramente lo chiamava Pci e quando lo faceva non sempre era per tesserne le lodi. Per lui era e restava il “Partito”. Il partito lo aveva accolto quando, lasciata la casa paterna, trovò ospitalità da Pancrazio De Pasquale: il segretario palermitano del partito.

Il partito gli aveva fatto incontrare persone simili a lui, giovani pronti a battersi per le sue stesse ragioni. Il partito gli aveva dato un lavoro, quello della sua vita, e pagato il primo, si fa per dire, stipendio. Il partito aveva trasformato i suoi afflati di giustizia ed eguaglianza in visione politica ideale e, allo stesso tempo, solidamente radicata nella realtà, e gli aveva fornito i mezzi per l’azione politica concreta. Il Pci era un partito fortemente identitario, fondato sulla condivisione degli ideali che ne ispiravano la politica, e mio padre, come tanti militanti e dirigenti, viveva profondamente questa condivisione, facendosi carico della coerenza, nei comportamenti e negli atti, con quegli ideali comuni, che richiedevano quel senso di responsabilità e disciplina che lo ha portato a sacrificare le ambizioni personali sull’altare degli interessi del partito. Ho capito che riusciva a farlo perché aveva fiducia nel suo partito, che gli aveva dato fiducia. E che gli aveva fatto incontrare Giuseppina Zacco. Studio e cultura, prima che incontrasse la politica, erano stati per mio padre gli strumenti per crescere e costruire le basi per affrancarsi, individualmente, dalle condizioni difficili che avevano caratterizzato la sua infanzia.

Mia zia Felicia, sua sorella maggiore, racconta che mio padre già a quattro anni accompagnava mio nonno al lavoro.

Una di quelle mattine, doveva essere l’estate del 1932, mio padre chiese al suo se potesse rivolgergli una domanda e ad un cenno di assenso di quest’ultimo gli espresse il desiderio di volere andare a scuola. La reazione di mio nonno fu immediata ma perplessa. Mio nonno non credeva che la scuola avrebbe potuto cambiare il suo destino. Lui faceva il contadino, come lo aveva fatto suo padre, come pensava di poter avere un futuro diverso? Insomma, Pio doveva rassegnarsi, il suo destino era quello di spaccarsi la schiena, in cambio di una vita grama.

Si scontravano due modi di intendere la vita e le sue vicissitudini. Mio nonno incarnava la visione del “come siamo, resteremo”. Mio padre quella che è possibile avanzare sulla strada del progresso.

Fortunatamente, la discussione non si concluse lì. Mio nonno tornò a casa, per raccontare a mia nonna l’accaduto e lì dovette affrontare la sua opinione. La nonna Angela, analfabeta, comprendeva e sosteneva la richiesta di suo figlio, capovolgendo il ragionamento di mio nonno. Se suo figlio Pio voleva andare a scuola per studiare, per non fare il contadino, scegliendo un destino diverso da quello di suo padre e di suo nonno, lei era d’accordo. Alla fine, il compromesso fu raggiunto. Mia nonna si sarebbe fatta carico delle spese scolastiche, andando a vendere i prodotti del giardino, e mio padre avrebbe continuato ad aiutare mio nonno. Visto che non avrebbe potuto aiutarlo nei lavori del giardino, si sarebbe preso cura della stalla, che avrebbe pulito tutte le mattine, prima di recarsi a scuola. L’atteggiamento di mio padre bambino era premonitore delle sue scelte da adulto. Come non si era rassegnato all’ineluttabilità del destino che, nelle parole del padre, lo condannava a una condizione di subalternità, così aveva dedicato il suo impegno perché nessuno continuasse a subire la stessa condanna.

Prima del partito, che ancora non conosceva, fu lo studio ad essere necessario al riscatto dalle sue misere condizioni. Era, per mio padre, la sola via d’uscita in una società rigidamente divisa, che non favoriva il desiderio di avanzamento sociale delle classi povere, alle quali era offerto, in questi casi, di seguire solo il cosiddetto avviamento professionale, che non permetteva l’accesso all’università. Mio padre affrontò anche quell’ostacolo, superando gli esami di licenza liceale e iscrivendosi al corso di laurea in matematica.

L’impegno politico, intrapreso in quei giorni, lo convinse che non poteva sostenere il ritmo imposto dagli studi di matematica e decise di cambiare facoltà. Scelse ingegneria, ritenendola più compatibile con l’attività politica, ma si sbagliava, perché questa avrebbe preso il sopravvento, con le responsabilità derivate dagli incarichi che avrebbe assunto, nel giro di poco tempo.

Non posso dire se sarebbe stato un bravo ingegnere, come uomo impegnato in politica di cose ne ha costruite. Amava troppo lo studio, nel suo significato profondo, per rassegnarsi e lasciar perdere, e così, dopo una quindicina d’anni, si laureò in scienze politiche.

La politica per lui era anche studio, non solo azione, e ce lo ricordava, quando doveva scrivere un articolo o preparare una relazione o un discorso, con una sua frase tipica: vado di là a studiare. Di là, quando abitavamo a Palermo, era il suo studio, dal quale si accedeva alla camera da letto dei miei genitori, arredato con una grande libreria e un’ampia scrivania, in stile svedese.

La scrivania era ricoperta di fogli di carta, block notes, documenti, giornali, cartelle e libri, sparsi o raccolti in pile. Insomma, una gran confusione, un evidente disordine per i più, che lui riusciva a governare, senz’ansia, trovando sempre quello che cercava, dopo una rapida ricerca e senza perdere la concentrazione.

D’altronde chi, meglio di lui, aveva goduto dei risultati del lavoro che lo studio richiede? Se non avesse avuto il coraggio di sfidare il padre, per quella che lui riteneva una giusta causa, e non avesse trovato l’alleanza con la madre, non saremmo qui a parlarne. Ci ripeteva che non aveva altra arma che la cultura per riscattarsi dalla miseria.

Come potergli dar torto? Le battaglie giuste meritano di essere combattute, anche se non si è certi di vincerle. Perché, comunque, aiutano a costruire alleanze, ti fanno stare accanto a chi dici di voler difendere e, cosa non minore, dimostrano che le scelte devono essere coerenti e non sottoposte a criteri di opportunità o, peggio, di opportunismo. Tutto quello che mio padre ha fatto, lo ha potuto fare grazie a quella scelta iniziale di voler andare a scuola. [...].

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