Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Questa è la storia più importante che abbiamo scoperto finora nel nostro lunghissimo viaggio attraverso la Sicilia. Non ci sono assassinii, né morti per sciagura, né sofferenza umana e nemmeno dolori, e non c’è corruzione o violenza, e nemmeno miseria, pregiudizio e superstizioni, cioè nessuno dei vizi umani che rendono tragica la Sicilia.

Tuttavia questa storia, che soli pochissime persone conoscono nella loro completa verità, è senza dubbio la più importante che io abbia appresa poiché dimostra quello che la Sicilia potrebbe essere e quello invece che non è. Un luogo di energie immense poste al servizio dell’uomo per il suo appagamento civile, e non invece una terra dove gli esseri umani si contendono, sempre disperatamente, a volta mortalmente, le cose miserabili della vita.

Né abbiamo appreso questa verità tutta insieme, ma un poco per volta, una piccola risposta reticente. un’allusione, una conferma esitante, una confidenza subito negata, personaggi che alla fine ti congedano con un soriso e un sospiro, altri che dicono di non sapere e invece sanno tutto, mezze parole subito confuse al centro di un discorso, e poi le cose viste, le cifre studiate, la discesa in fondo alla miniera più profonda dell’isola, i funzionari che dicono: «Io non posso!» I politici che si stringono sulle spalle, i dirigenti che dicono di non sapere, i poveri minatori che dicono «porca puttana, se si potesse…»

Da tutte queste cose, via via, da un luogo e da una parola all’altra, è emersa infine la verità della storia. La potremmo definire perfettamente il documento della stupidità storica siciliana. Per ragioni di semplicità del racconto, divideremo questo in tre parti, con una tecnica quasi teatrale: dapprima il prologo sulle cose, quindi il fatto ed infine la rivelazione. Il titolo dell’argomento sembra squallido: i sali potassici. Ma chi di voi dovesse subito pensare di non divertirsi, sbaglierebbe. Vedrete per quali vie e combinazioni questo sale potassico diventa l’affare degli affari per tutti i siciliani.

Il prologo, dunque, ovvero l’identità del sale potassico. E un minerale che si trova nelle profondità del sottosuolo siciliano in giacimenti che quasi sempre hanno una consistenza massiccia, ancora nemmeno verificata in tutta la sua estensione, e si estendono sottoterra per canaloni e balze che le miniere debbono pazientemente inseguire sempre più in profondità.

È un prodotto minerario essenziale poiché, dalla sua raffinazione, deriva una gamma di altri prodotti fondamentali per innumerevoli usi industriali e agricoli, come la kainite, il cloruro di potassio, il magnesio, il solfato di magnesio, il solfato di potassio, il salgemma, e addirittura lo zolfo.

Alcune di queste componenti sono preziose per la fabbricazione di fertilizzanti d’altissima efficacia, prodotti plastici e diserbanti. Attualmente in Sicilia esistono quattro grandi miniere, a Pasquasia, Corvillo, S. Cataldo Palo e Racalmuto, tutte gestite da una consociata dell’EMS, cioè l’ISPEA che letteralmente significa Industria sali potassici ed affini (tenete mente a questo «affini» perché il bello balzerà fuori proprio da questa parolina insignificante).

La produzione si aggira sulle trecentomila tonnellate annue che vengono vendute sui mercati nazionali e mondiali ad un prezzo medio di cento dollari a tonnellata, per un valore che oscilla dai venticinque a trenta miliardi. I maggiori usufruitori dei sali potassici siciliani sono la Montedison e l’Agip in campo nazionale, i paesi del nord Europa e soprattutto alcune nazioni dell’Africa settentrionale. Persino l’America compera il sale potassico siciliano, nonostante il sottosuolo americano sia ricco di alcuni grandi giacimenti.

Non si tratta solo di usufruire della migliore qualità del prodotto siciliano, ma di un calcolo preciso della politica americana: cioè intanto sfruttare e depauperare i giacimenti minerari altrui, e conservare quanto più intatti i propri, privilegiandoli sui mercati mondiali di domani.

Chi è ricco può adottare queste raffinatezze di economia politica, e può apparire persino intelligente; chi è povero è costretto ad accettare, e quasi sempre fa la figura del minchione.

Nel nostro caso (come si vedrà) la figura del minchione è duplice: per una parte obbligatoria, e per l’altra volontaria. L’organico attuale delle quattro miniere siciliane è formato da quattro dirigenti, 320 impiegati e 1570 minatori per un costo di mano d’opera di circa nove miliardi annui, che, aggiunti a tutte le altre retribuzioni e spese collaterali per lavori di manutenzione, trasporti, appalti di nuovi impianti, usufruizione di energia portano i costi di gestione a sfiorare la cifra di diciotto miliardi annui. Complessivamente si può dire che, attorno all’industria dei sali potassici, fra minatori, trasportatori, collaudatori, addetti alla manutenzione lavorino complessivamente almeno tremila famiglie, con salari di livello europeo ed un proliferare di sempre nuove iniziative.

Quasi tutto il personale impiegato nelle miniere, soprattutto nei lavori più umili, è siciliano. I tecnici invece sono spesso provenienti da altre regioni italiane poiché, incredibilmente in Sicilia, nonostante sia la regione di più alto interesse minerario di tutta la nazione, non esiste in alcuna delle tre università (tutte e tre si fregiano del titolo di antichissime e gloriose) una facoltà di ingegneria mineraria e nemmeno una specializzazione tecnica a livello di istituto superiore.

Nelle miniere dell’isola (siano esse di zolfo, salgemma, sali potassici) i siciliani sono cavatori, manovali, autisti, soprastanti, custodi, uomini di fatica, elettricisti, fabbri, contabili. Già questa è una prima idea, di quanto possano essere minchioni i siciliani con se stessi.

Ma ancora siamo ad una larva di minchioneria. Gestita per anni con i soliti criteri clientelari, e senza una precisa cognizione tecnica sulle possibilità di produzione e sfruttamento, l’industria dei sali potassici parve ad un certo momento sul punto dell’autodistruzione. I passivi erano nell’ordine di decine di miliardi: la mancanza di liquidità persino per il pagamento di stipendi, salari, forniture di energia e lavori accessori, portò l’azienda sull’orlo della bancarotta. Non c’erano soldi nemmeno per pagare la manutenzione, il che significava il progressivo annientamento di tutti gli impianti. Come sempre erano gli interessi dei crediti bancari a divorare letteralmente l’impresa.

Dovette essere varata (fra zuffe, accuse, rimpianti, polemiche) una legge speciale della Regione che consentì intanto di pagare tutti i debiti con le banche (che inghiottivano quasi completamente l’attivo del bilancio) graduando invece l’estinzione degli altri debiti con i fornitori, gli istituti previdenziali, le aziende di collaborazione.

Affannosamente, lentamente, costretta a darsi una amministrazione dura e controllata, bloccando le assunzioni superflue, incrementando ancor più la produzione, l’industria dei sali potassici ha risalito lentamente la china ed oggi sarebbe già in condizione di realizzare un attivo clamoroso solo che si riuscisse, come in realtà è possibile, ad aumentare la produzione pur con lo stesso personale e gli stessi impianti e macchinari in dotazione. E qui finisce il prologo: abbiamo detto cos’è il sale potassico, a quali usi industriali viene destinato, come viene venduto, quanto costa, quali sono le prospettive economiche immediate.

Ora il fatto, cioè la miniera. Siamo scesi in fondo alla miniera di Pasquasia che è la più grande di tutta l’isola, su una montagna a metà strada fra Enna e Caltanissetta.

Un grande caseggiato bianco sul declivio, un ronzio di macchine invisibili, non si vede essere umano, ma nelle profondità, fino a quasi ottocento metri sottoterra, lavorano mille minatori dispersi in circa venti chilometri di gallerie. Ci hanno fatto rivestire di una tuta, di stivali. di elmo con la lampada in cima.

Eravamo già stati per un intero pomeriggio nella zolfara di Cozzo Disi, cupa, drammatica, piena di fango, di vento, con le gallerie basse tenute da tralicci di travi, cunicoli angosciosi per i quali si doveva avanzare quasi strisciando, il caldo immobile soffocante, le caverne dentro le quali gli uomini lavoravano quasi nudi, le macchine ad aria compressa per evitare qualsiasi scintilla che determinasse lo scoppio di grisou o propagasse il fuoco ai filoni di zolfo.

Due giorni prima una immensa vampata aveva percorso come una folgore un reticolato di gallerie, uccidendo un minatore e ustionandone gravemente altri dieci. Tutto ci era apparso infernale, quelle pareti che la pressione della montagna lentamente schiacciava, costringendo gli uomini ad avanzare spezzati in due, il colore stesso della roccia, il cupo di pece e con balenii gialli come folgori rapprese sulla pietra, l’urlo delle scavatrici, il vento che faceva barcollare nei primi camminamenti, poi il freddo gelido del pozzo per il quale si sprofondava per circa seicento metri sottoterra, infine l’aria immobile e quasi rovente delle gallerie e delle caverne, centinaia di uomini che non si vedevano o sentivano, infilati qua e là come vermi in quella miriade di cunicoli, la sensazione atroce della stupidità, cioè di tutto questo sacrificio umano che non serviva a niente: ventidue miliardi da spendere per non vendere nemmeno un chilo di zolfo sulla faccia della terra.

Nella miniera di Pasquasia la prima sensazione è stata quella del vento. Più si andava sottoterra, al livello più profondo, quasi ottocento metri, e più si sentiva questo vento che corre veloce per tutti gli anfratti sotterranei, da una galleria all’altra, aspirato e sospinto ininterrottamente da tre giganteschi pozzi. Poi la vastità della miniera e delle gallerie, ampie ed alte, illuminate come trafori stradali. Le pareti sono bianche, grigie, azzurre, gialle e poggiandovi una mano senti talvolta il minerale sbriciolarsi subito sotto le dita poiché si tratta di salgemma.

Hai la sensazione che tutto si possa sgretolare improvvisamente in un polverone di sale, e invece si tratta del minerale più saldo e indeformabile di qualsiasi altra miniera, la sua stessa elasticità e morbidezza assorbe qualsiasi compressione. L’ascensore sprofonda veloce verso il fondo della montagna attraverso sette livelli, ad ognuno dei quali corrisponde una fermata e quindi un piano di gallerie e lavorazione.

Già al secondo livello si è a quattrocentocinquanta metri sotto il livello del mare. Il settimo livello è quasi a mezzo chilometro sotto il livello marino. Rispetto alla miniera di zolfo questa sembra una città sotterranea di fantascienza, fremente per un ronzio continuo di motori elettrici, percorsa ininterrottamente da piccoli, lunghissimi treni carichi di materiali che s’infilano da una galleria all’altra preceduti da un suono di sirena, si fermano ai semafori rossi del crocevia ed attendono l’accensione delle luci verdi; e da una galleria all’altra intanto sale il brontolio di una gigantesca macchina che sta proprio giù, in fondo all’abisso, unita ai vari piani da un pozzo dentro il quale i trenini scaricano ininterrottaniente il minerale scavato.

Laggiù l’impianto, attraverso una serie di macine e frantoi, frantuma i macigni, li polverizza, riempie i silos contenitori e, non appena ognuno è colmo, automaticamente, attraverso uno skif lo manda in superficie dove altre macchine lo lavorano, depurano, separano l’una sostanza minerale dall’altra, insaccano, eliminano le scorie. Per alcuni chilometri viaggiammo in fondo alla montagna su un veicolo mai visto, lungo, basso, dotato di un motore enorme e di ruote gigantesche, una specie di gigantesco «Land Rover» che, invece di viaggiare sulle spiagge, o inerpicarsi per campi e sentieri, è capace di arrampicarsi lungo tutte le gallerie sotterranee, superando qualsiasi pendenza, qualsiasi ostacolo.

Lungo questo percorso di quasi due ore, per tutto il piano più profondo della miniera, scorgemmo all’opera macchine incredibili che avevano autentiche somiglianze animali. L’una era ad esempio una perforatrice pneumatica, cioè una specie di scarafaggio metallico con un’antenna lunghissima con la quale andava picchiando vertiginosamente lungo la parete, perforandola con una rapidità incredibile.

L’uomo che stava ai comandi riusciva a manovrarla con una straordinaria docilità, come fosse un grande animale da circo equestre. Un’altra macchina invece era bassa, esile e lunghissima come serpente, anzi fate conto di una tartaruga che si muove adagio e dal guscio le sbuchi un collo sinuoso e interminabile capace di penetrare in ogni anfratto, con una lingua tagliente e vorticosa.

Era una sega che affondava di colpo in fondo alla caverna e con un sibilo tagliava la parete, prima dal basso in alto, poi da destra a sinistra, e via via che la parete si sbriciolava quella lingua d’acciaio ricominciava a tagliare sempre più a fondo, dal basso in alto, da destra a sinistra. Tutte le gallerie e le caverne della miniera sono state scavate così, con decine di queste macchine che avanzano in fondo alla terra, fanno tutto da sole, tagliano, levigano, disegnano la volta della galleria, sbriciolano il minerale, lo caricano sui vagoni.

Da un piano all’altro c’è questa sensazione di lavoro febbrile, senza mai un attimo di interruzione: i giganteschi «gipponi» che, per volute e tornanti, vagano da un piano all’altro della miniera; le luci verdi che s’accendono d’un tratto ed i piccoli treni che passano rapidi; i nastri trasportatori che corrono ininterrottamente dalle caverne di estrazione fino al grande pozzo di lavorazione; quegli scarafaggi metallici che non hanno posa, scavano sempre più a fondo dentro la montagna.

E il vento che corre violento da una galleria all’altra; e in ogni galleria, a seconda della profondità, un colore diverso del soffitto, quale giallo cupo per le striature di zolfo, quale azzurro per le variazioni cromatiche del salgemma, quale nero per le macchie della pece o addirittura variegato di rosa, di nero e di azzurro secondo il capriccioso disegno della natura che, decine di millenni or sono, aveva fatto emergere queste montagne dal mare. Non udimmo mai un minatore ridere o gridare. Qui, per regola di lavoro, non si parla, non si fuma, non si portano nemmeno sigarette o fiammiferi.

I soli istanti di libertà ognuno può prenderli quando deve cercare un anfratto discreto per i suoi bisogni umani più vili. Tutto quello che vidi, giù, in fondo alla miniera di Pasquasia, compreso l’atteggiamento degli esseri umani, mi parve preciso, inappuntabile e coerente.

Pensai dunque che, volendo, anche in Sicilia una impresa collettiva può essere moderna e perfetta, e una ricchezza della natura può essere amministrata con intelligenza e saggezza. E proprio qui invece, ancora una volta, era l’inganno. Siamo infatti giunti all’atto terzo del racconto, dal titolo: rivelazione.

Il sale potassico, per l’infinità di usi industriali e chimici possibili è un minerale prezioso almeno quanto il petrolio e sicuramente più del carbone. Con i soli mezzi attualmente esistenti, sia macchine, che personale specializzato, la produzione potrebbe essere raddoppiata. Ma la grande, gigantesca ricchezza è ancora da scoprire, poiché sotto i giacimenti attuali altri si estendono dieci volte più vasti e probabilmente più puri e dunque più ricchi. Orbene accade che, della produzione attuale portata in superficie, venga utilizzato solo il trentacinque per cento, cioè appunto la kainite, il cloruro e il solfato di potassio che servono esclusivamente all’industria chimica della plastica e dei fertilizzanti.

Tutto l’altro sessantacinque per cento viene buttato via poiché non esistono macchine o stabilimenti che possano lavorarlo.

Tale massa di rifiuti, ridotta allo stato di salamoia, va a finire nel fiume Salso con un danno mortale non solo per la flora e la fauna di quelle acque, ma anche di un vasto tratto di mare, circostante la foce. Questi rifiuti contengono zolfo, salgemma, cloruro di sodio e acido solforico che sono materiali vili, ma hanno anche percentuali altissime di ossido di magnesio, minerale eccellente per la costruzione degli altiforni, e soprattutto di magnesio metallico.

Proprio il magnesio è uno dei minerali più preziosi per una serie di caratteristiche; l’estrema resistenza sia alle violenze meccaniche e chimiche, sia alle altissime temperature, e soprattutto la incredibile leggerezza che lo rende addirittura materiale strategico essenziale nel settore aeronautico, spaziale e missilistico.

Ecco: una ricchezza incalcolabile, forse di decine e centinaia di miliardi, viene ogni giorno gettata come rifiuto nelle acque del fiume Salso e nei rigagnoli che percorrono i canaloni al centro della Sicilia. Per potere isolare e quindi utilizzare questo metallo, tanto più prezioso, quanto più raro sulla faccia della terra, occorrerebbe uno stabilimento industriale di alta sofisticazione tecnica e del costo di circa trecento miliardi.

Onde valutare giustamente questa cifra (che può sembrare gigantesca) basti pensare che, negli ultimi anni, la Regione ha bruciato quasi mille miliardi per tenere in piedi la grottesca struttura zolfifera cioè per non avere avuto mai il coraggio sprangare le miniere di zolfo e imporre d’imperio una riconversione delle forze di lavoro. Con trecento miliardi, invece si sarebbe potuta spalancare una immensa prospettiva di ricchezza mineraria nel settore dei sali potassici, ed assicurare all’economia siciliana un avvenire di incalcolabile portata.

Che la Sicilia sia prodigiosamente ricca di sali potassici e che tuttavia riesca a sfruttarne solo la parte più vile, lo sanno naturalmente tutti gli ambienti dell’economia mineraria mondiale. E che, fra le possibilità di produzione, ci sia anche quella del magnesio metallico, è conosciuto ovviamente da tutti gli ambienti politici e strategici europei e americani.

Recentemente c’è stata addirittura una cauta «avance» da parte di un trust di banche svizzere che si dichiaravano disposte ad anticipare qualsiasi capitale utile alla realizzazione dello stabilimento per la produzione del magnesio. Un trust bancario, di per se stesso, non è un interlocutore valido, si suppone che, dietro questa facciata, si celino interessi molto più vasti e misteriosi di natura politica; taluno addirittura li riconduce oltre cortina, tanto vero che sull’avvenire dei sali potassici siciliani c’è stato subito un discretissimo ma perentorio intervento anche da parte americana.

Vogliono sapere gli sviluppi della situazione, si dichiarano disponibili a qualsiasi collaborazione. Certo non esiste alcun documento ufficiale, tutto è sfuggente. trattato per interlocuzioni politiche, per paraninfi di incerta fisionomia, per allusioni. Allo stato attuale esiste solo una specie di studio tecnico sommario, poche veline redatte da un ingegnere o dirigente scrupoloso che nessun governo regionale finora ha preso seriamente in considerazione e tanto meno portato in discussione parlamentare.

Soltanto vaghi annunci di un progetto che dovrebbe essere realizzato entro il 1981, con la prevista partecipazione della Regione, della Cassa per il Mezzogiorno e dell’Ente minerario. Si dice anche si aspetti la costruzione del metanodotto ENI dall’Algeria alla Sicilia per garantire alla nuova industria il fabbisogno di energia.

Ma in realtà è probabile che le decisioni siano ferme ai più alti livelli nazionali per capire bene, insomma per decidere come e per conto di chi questo magnesio, quali ali d’aeroplano da caccia, quali navicelle spaziali dovrà costruire, quali missili rivestire. E intanto, da anni, i siciliani guardano quelle montagne aride di Pasquasia, San Cataldo, Racalmuto, aride, spoglie, deserte, senza un albero e dicono: «Terra schifosa». Camminano sull’oro e non lo sanno. Sempre e storicamente minchioni.

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